Romanesco, fagiolini e mia nonna

Qualche giorno fa ho comprato dei fagiolini freschi. Non capitava da una vita, perché i fagiolini surgelati sono assai più comodi, perché non vanno “capati”, come si dice nei soliti bassifondi della solita Capitale. Mi piace usare dei dialettismi, in realtà non conosco il romanesco così bene, quando l’ho imparato i trasteverini veri erano già una razza in via di estinzione, per cui il romanesco vero, quello del Belli per capirsi, già non esisteva più da un pezzo. E però alcune cosettine, alcuni termini qua e là, sono sopravvissuti all’imbarbarimento del dialetto. E quindi, al di là dell’accento e della pronuncia, della quale impartisco ripetizioni a Iaia con scarsa costanza ma con grande determinazione (e debbo dire che Iaia si è rivelata un’allieva straordinaria, e ricambia i miei insegnamenti con delle perle di siculo che, ahimé, non riesco a introiettare e far miei come meriterebbero e come io vorrei), quando capita una parola della tradizione la uso. Capare è una di queste, e significa scegliere o pulire a seconda del contesto. In realtà i significati sono più vicini di quanto non appaia, uno essendo l’estensione dell’altro. Capare la verdura, nel caso di verdura a foglia larga, significa scegliere le foglie buone e scartare quelle cattive. Per estensione quindi si usa per pulire, e in particolare nel caso dei fagiolini si riferisce all’operazione di togliere le due punte. Che è un’operazione di pazienza, lenta e noiosa.
E mentre mi organizzavo, da qualche oscuro meandro della mia memoria si è affacciata l’idea di mettermi in grembo una ciotola, di poggiare i fagiolini sul tavolo, e di mettere un’altra ciotola vuota sul tavolo. E ho iniziato a capare i fagiolini, e dallo stesso meandro mi è venuta l’indicazione di ruotare la mano che tiene il fagiolino e porgere la punta da togliere all’altra, in attesa di troncarla con l’unghia del pollice. E mentre lavoravo, inizialmente incerto, poi più spedito, d’improvviso ho capito che quell’oscuro meandro era lo stesso che conteneva il ricordo di mia nonna paterna.
Mia nonna è stata la protagonista di una vera storia d’amore. Nata poco prima della fine del XIX secolo, in una famiglia di origini modeste, per non dire umili, si era innamorata, ricambiata, di un nobiluomo, mio nonno, fratello minore del futuro conte. Mio nonno, che era evidentemente un temerario, organizzò una fuga d’amore e portò mia nonna in Spagna, dove la sposò. Ebbero tre figli, tutti maschi, il più piccolo era mio papà.
Entrambi i nonni pagarono questa fuga a caro prezzo. Un figlio, il secondogenito, morto in circostanze misteriose a 25 anni. Un altro, il maggiore, deportato a Dachau e sopravvissuto per miracolo, ma con la vita segnata per sempre. Mio nonno stesso, morto di infarto durante la prigionia del figlio. Mia nonna, rimasta sola, fu aiutata dalla famiglia di mio nonno, e per lunghissimo tempo visse a Torino. In vecchiaia si trasferì a Roma per stare più vicina a mio papà. Io ero già grandino, sicuramente al liceo. E venne a vivere in un appartamento abbastanza distante da dove abitavo io, ma tutte le settimane prendeva 3 autobus e veniva a noi a pranzo. E oggi capisco che non riusciva a staccarsi dall’idea di doversi “guadagnare” il pranzo. Non che mia madre le facesse pesare alcunché, da brava teutonica aveva messo il pranzo settimanale nel suo casellario e nel regolamento della casa, come faceva praticamente con tutto. Ricordo che il mercoledì era il giorno della spesa al mercato, il giovedì la pulizia del frigorifero, il venerdì i vetri, e così via, in una teoria di attività cadenzate da una periodicità, che poteva essere quotidiana, settimanale o mensile, ma aveva una ineluttabile precisione. Se non ricordo male il giorno di mia nonna era il martedì. E insomma mia nonna esigeva di fare qualcosa, di rendersi utile, con la scusa di non essere capace a stare con le mani in mano. E quindi grattava il parmigiano, puliva le verdure, e capava i fagiolini. Al rientro da scuola (allora non era infrequente uscire alle 12.30, e la scuola era vicina, quindi arrivavo a casa che ancora non era ora di andare a tavola) capitava che la trovassi a pulire i fagiolini, e mi incantavo a guardarla. La rapidità con la quale prendeva un fagiolino dopo l’altro era tale che quasi sembrava non facesse nulla. L’unica testimonianza erano i capi che le finivano in grembo, lei allargava le gambe e sistemava un foglio di giornale sulla gonna, che alla fine veniva arrotolato con dentro gli scarti.
Cornetti. I fagiolini lei li chiamava cornetti.

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22 pensieri su “Romanesco, fagiolini e mia nonna

  1. angyerry

    BelLissimo commovente post 🙂 all’inizio non capivo cosa fosse “ronanesco” 🙂 t’é sfuggita una m per un n birichina 🙂 io Scorpio Che le persone piû “belle” Che conosco, Gruppo di cui tu porti la bandiera 🙂 (sono in tema olimpiadi), hanno sempre dietro storie cosi belle da raccontare , ricordi dolcissimi nel cuore accompagnati a ricordi tristissimi … Credo che questo bagaglio renda proprio le persone speciali… Proprio perchè hanno il cuore e la mente abituato a provare delle emozioni, a riconoscerle e a trasmetterle agli altri *.* … Poi la tua tenerezza è proprio una virtù sublime 🙂 non so se te ne rendi conto 😀 ti abbraccio fortissimo!!!

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      Cara Angela, anzitutto grazie per aver notato il refuso. La dannata tastiera touch dell’aipad ha colpito ancora… 😉 Ma erano giorni che lo avevo “in canna”, quel post, e tra ieri e oggi l’ho scritto, ci ho aggiunto una foto e l’ho pubblicato, sennò mi faceva la fine del limone in frigo, quello che diventa “vizzo come una tetta di strega”… 😀 😀 😀 mi piace tantissimo quell’espressione, non ricordo quando l’ho incontrata la prima volta ma ero molto giovane, dovevano essere gli anni dell’università, e da allora non l’ho più abbandonata… E grazie dei complimenti, anche se mi pare che forse esageri un po’… 🙂 Ma l’abbraccio me lo prendo tutto! 😉

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  2. Biancaneve Suicida

    Ecco un altro mistero arcano e inviolabile col quale fare i conti (non quei conti, che qui devo fare attenzione, parbleu): la famiglia. Tolti i massimi sistemi, le relazioni e la storia, la famiglia si identifica in piccoli gesti di persone care, insegnamenti quotidiani e semplici, capaci di radicarsi in zone dell’anima molto profonde, in immagini che non sbiadiscono nei tratti fondamentali e mantengono intatti suoni e odori che, credo, passiamo la vita a ricercare senza rendercene conto. Poi angy ha perfettamente ragione e stavolta tocca a me: ti trovo particolarmente profondo in questi giorni e decisamente malinconico e c’è una sensibilità affiorante in te, che mi richiama l’immagine del fiore di loto.

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      L’altro giorno su un blog che seguo ho trovato la parola “melancolia”, e mi sono complimentato perché la trovo una bella parola. Sì, è vero. C’è un po’ di malinconia. Il momento è delicato, come recita il titolo dell’ultimo libro di racconti di Ammaniti. E grazie del paragone, mi piace la simbologia ma il fiore di loto non l’ho ancora incontrato nelle mie peregrinazioni esoterico-filosofiche. Leggo che dal loto nacque il dio Ra, e insomma gli Egizi mi appassionano parecchio. Approfondirò il loto.
      Un’ultima cosa. Quando ho letto “affiorante” mi è venuta in mente la caverna con gli scrigni. Solo che in quella metafora ciò che affiorava era altro… 😀 😀 Scusa ma dovevo “alleggerire”… 😀 😀

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      e non ti devi preoccupare, perché a me fa piacere solo il fatto che tu abbia letto e sia passata di qui, e che me lo abbia detto, che hai letto. e poi io penso che abbiamo qualche tratto in comune, una timidezza che ci impedisce talvolta di esprimere compiutamente le nostre emozioni. ma intuisco qualcosa (e sai che il mio intuito non è proprio da buttare… ;))

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  3. gluci77

    Bellissimo questo ricordo della nonna e di un gesto suo che diventa tuo e te la riporta alla mente. Le persone care che non ci sono più ci vengono a trovare così, grazie a quello che ci hanno lasciato nel profondo, nel cuore e nella testa… Tu sai quanto sia importante per me tutto questo. Non c’è bisogno che io aggiunga altro, se non che anche qui da noi il termine “capare” si utilizza nello stesso identico modo. Un abbraccio

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      Ecco. Bellissima sintesi. E grazie perché avrei voluto dirla io quella cosa del venirci a trovare.
      Sul capare inizio a pensare che sia italiano, mi dice Ema che anche nelle Marche è così!

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      1. Ema

        Eccolo! scusa ma dall’aifon non riuscivo a commentare..
        Sì, la mia prozia d’Ancona diceva capare e da piccolo (fino ai 36 anni, diciamo) l’ho sempre aiutata in cucina… e al mare capavo i cornetti per lei.
        🙂

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      2. Wish aka Max Autore articolo

        Ema, scusa di che?? E anche a te luci, sono io che ringrazio voi che mi leggete e mi arricchite con i commenti, non ho mai trovato commenti che non mi abbiano fatto pensare, è questo il mio ringraziamento. 🙂

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  4. pani

    bella storia, da farci un film. Anche mia nonna, nata nel 1893 e morta cent’anni dopo capava i fagiolini. Anche se da noi non si dice capare ma curare. Qualsiasi verdura si pulisca o si tagli, si dice sempre curare: “Cura l’insalata, cura le patate, cura le carote”. Che al passato diventa “Ho curà l’insalata…” oppure, in un’altra variante, “ho curado l’insalata, ho curado le patate…”.
    E dovrei pure avere un filmino girato da mio padre a cavallo dei settanta, con mia nonna in montagna che cura delle tegoline.

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      I nomi dei cibi sono affascinanti. Cambia regione, cambia il nome. Ho notato che questo è particolarmente vero per verdure e pesci. Ho controllato, mia nonna era del ’95. E morta nel 1986. Le date non sono mai state il mio forte.

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  5. 黒子 くろこ kuroko

    alfine arrivo. che passai ma non commentai. ho un ricordo analogo però riguardo ai carciofi. mi pare fosse una vicina di casa di mia nonna materna. e mi piaceva moltissimo quel movimento. come se stesse sfogliando un libro per togliere polvere o spennando una gallina. un movimento sempre uguale, veloce e preciso. senza sforzo o apparente concentrazione ma con attenzione costante. i petali facevano un rumore gommoso e morbido quando venivano staccati.
    cornetti. mi piace così tanto.

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      Ottima osservazione, attenzione costante. Una cosa che non puoi fare ad occhi chiusi, ma sulla quale hai sufficiente confidenza da poter fare in scioltezza. Un po’ come guidare. Pensa che “cornetti” mi è tornato in mente mentre scrivevo, mica prima 🙂

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  6. tittisissa

    Io, come credo ormai si sappia, ho origini sicule da parte di madre, figlia del figlio di un baronetto locale cultore della lingua sicula, e lombarde da parte di padre il quale, di origini più umili, a sua volta era figlio di emiliani. “Cornetti” è così che vengono chiamati i fagiolini da quelle parti e anche a Milano si usa il termine “curare” per dire “preparare” o come scrive Max “capare”. E’ bellissimo come in tutta la nostra penisola si raccolgano termini differenti per indicare la stessa cosa o la stessa azione.
    E anche io ho avuto una nonna meravigliosa, con una storia degna di essere romanzata, che purtroppo è scomparsa troppo presto prima di potermi raccontare tutte ma proprio tutte le storie della sua vita…
    Infine rivolgo un saluto a Luci, affermando che sento mie le sue parole….
    Le persone che amiamo e che non sono più con noi, ci tornano inevitabilmente alla mente nei momenti più disparati, rievocando alla memoria un gesto, una parola o un’azione anche semplicissimi, come l’atto del “capare i fagiolini”
    Che bellissimo post. 🙂

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