I plurali

Many many moons ago, come direbbe un vecchio capo indiano, decisi di abbandonare (io pensavo per sempre, ah, beata gioventù e beata ingenuità!) l’informatica. Mio papà aveva sempre lavorato per l’Italgas, e complice un orario singolare anche per quei tempi (ingresso ore 7.30, uscita ore 15.30 senza pausa pranzo istituzionalizzata), oltre che per la non esattamente lucrosità del posto, aveva sempre fatto un secondo lavoro, dei più svariati.

Intorno all’Italgas gravitavano una serie di imprese appaltatrici, che svolgevano i lavori di scavo e gli allacci ai nuovi palazzi. Si era verificato poi un vero e proprio boom di lavori quando si passò dal cosiddetto “gas di città”, ottenuto dalla distillazione del carbone, al metano. Questo implicò la sostituzione di tutte le colonne montanti e di gran parte delle tubazioni, che dovevano essere sottoposte a pressioni di esercizio ben maggiori, per ragioni che sarebbe lungo e tedioso spiegare e per inciso di nessun interesse pratico ai fini del post. Quel che interessa è che gli importi dei lavori appaltati all’esterno crebbe tantissimo, il personale Italgas era coinvolto solo nelle operazioni di pronto intervento e nei collaudi delle tubazioni prima della loro messa in esercizio. Nessun licenziamento, e assorbimento del picco di lavori senza mal di pancia a carico dell’azienda, con costi tutto sommato comparabili a quelli che sarebbero derivati dall’attrezzarsi in proprio.

Sta di fatto che mio papà, con un socio, diede vita ad una piccola azienda che lavorava con Italgas. Per amore di precisione e di sistema valoriale, tengo a precisare che non c’è mai stata la possibilità per mio papà di influenzare le vicende della sua azienda dall’interno di Italgas, semplicemente la sua esperienza maturata sul campo faceva sì che potesse dare un contributo di qualità.

Questa piccola azienda crebbe, ne fu fondata un’altra, e poi un’altra, fino a raggiungere un numero ragguardevole. Nel frattempo io mi ero laureato, avevo iniziato a lavorare, mi ero sposato, ed erano nate le bambine. Nel ’91, dopo averci pensato a lungo, decisi che quel patrimonio di lavoro non poteva essere disperso, cosa che sarebbe accaduta nel momento in cui mio padre si fosse ritirato dagli affari, e quindi accadde quel che ho detto nel primo capoverso.

Io qualcosina l’avevo già dimostrata, in ambito lavorativo. Avevo cambiato quattro aziende, triplicato lo stipendio iniziale, ed ero quadro. Mio papà mi propose di essere assunto come dirigente, con un buon aumento.

Mi resi presto conto del fatto che il mondo lavorativo al quale ero abituato, fatto di “professional”, come si chiamavano allora, era molto diverso da quello fatto di operai, capisquadra, geometri e Ingegneri. Sì, Ingegneri con la I maiuscola. Ed io lo ero, Ingegnere. E tutti mi ci chiamavano, cosa alla quale non ero assolutamente abituato. Così come non ero abituato al tu asimmetrico. Se io davo del tu a un collega, il collega mi dava del tu. Se qualcuno mi dava del lei, io gli davo del lei. Con gli operai no. Perché se sei Ingegnere gli operai ti danno del lei, ma tu come Ingegnere devi dare loro del tu. E la cosa singolare è che se non lo fai perdi di credibilità. Dovevo farmi delle violenze incredibili, inizialmente. Non mi riusciva proprio. E poi tra professional non si metteva il titolo neanche nei biglietti da visita, figurarsi appellare qualcuno con il suo titolo di studio! Non esisteva proprio!

E così iniziai a imparare un nuovo modo di rapportarmi con la gente. Imparai ad alzare la voce, ad arrabbiarmi, a trattare con i fornitori. Mentire al cliente, quella era l’unica cosa che già sapevo fare. In questo, tutto il mondo è veramente paese.

La mattina andavo a fare il giro dei cantieri, controllando l’andamento, facevo un salto in Italgas a trovare i vari responsabili di zona, gli interlocutori istituzionali con cui parlare dei cantieri aperti, e il pomeriggio dopo le 15 andavo in ufficio ad organizzare il lavoro del giorno dopo, coadiuvato dai geometri.

Quando si posa una condotta si fa uno scavo largo meno di un metro, e profondo un metro circa. Poi si riempie con pozzolana, si comprime, e negli ultimi 50 cm si mescola alla pozzolana della calce, per avere un fondo più resistente. Morale, il movimento terra è una parte importante del lavoro di posa tubazioni. E quindi una parte del lavoro di organizzazione era quello di ordinare i “viaggi” di pozzolana. Ogni camion porta circa 10 metri cubi, quindi si calcolava quanto si sarebbe scavato e si ordinavano i viaggi di conseguenza.

Ed è qui che mi allaccio al titolo. Perché quando si dovevano ordinare 5 viaggi di pozzolana, si chiedeva al fornitore quanti “cami” ci poteva mettere a disposizione. Perché cami? Perché è il plurale di “camio”. Perché a Roma si dice “er camio”. Plurale, “i cami”. E tutto torna.

26 pensieri su “I plurali

  1. Biancaneve Suicida

    Sai che credo di ricordarmelo questo plurale bislacco? Vengo da una famiglia con la valigia pronta sotto il letto da sempre, la provenienza di alcune espressioni non la saprei nemmeno più identificare tra regionalismi, dialetti e familiarismi vari ma a volte sorrido quando mi capita di rincontrarle…e questa credo sia una di quelle occasioni. *

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    1. angyerry

      Biancaneve… Ma come ti chiami in realtà?! 😉 hai dato ad una definizione che mai mi era passata per la mente alla mia famiglia….Con la valigia pronta sotto il letto… E Max 🙂 cami…:) 🙂 bel post … Cami 🙂 ah ah ah :)Ciao cari

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      1. angyerry

        Anche la bellissima cicciottissima nonna del mio lui… Che oltre a parlare dialetto massetano (massa d’albe, Abruzzo) ha, come tutte le nonne, dei termini tutti suoi, mezzi italiani mezzi dialettali 🙂 dice Camio al singolare e cami al plurale 😀 ma il suo cavallo di battaglia è “capomilla” 😀 ah ah ah 😀

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  2. avreilefossette

    beh, a casa mia si dice un camion e due camion, ma cami è bellissimo e forse “cami-i” sarebbe ancor più raffinato!
    senza contare che alcuni plurali in italiano son quasi poetici….. il mio preferito è un Ligabue, due Ligabuoi! (scusate son cretina!) 😀

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      😀
      Il problema è che la raffineria e la romanità vanno poco d’accordo… 😀 😀 😀
      E un altro problema è che due diventa du’, quindi “du’ cami” pronunciato come se fosse tutto attaccato… Il romano mediamente è pigro, non ha voglia di perder tempo, per questo tronchiamo i verbi…
      però concordo con te, filologicamente camii, o meglio camî sarebbe la soluzione perfetta 🙂

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  3. 黒子 くろこ kuroko

    la cosa più bella è quando sento gente, che per dirlo in itaggllliano, dice “camióne”. (ma dato l’utilizzo spropositato della lettera ó sì accentata, per quale motivo non è presente nella tastiera????)
    comunque mentre leggevo il post ti immaginavo col casco giallo da muratore. e nonlosoperché.
    e mi piace la parola pozzolana. quasi quanto i sanpietrini.

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      Quelli che mettono in opera i sampietrini si chiamano “selciaroli”, che è una parola che mi piaceva tantissimo. E quell’attrezzo fatto a piramide lunga e stretta con un manico in altro, che il selciarolo usa per battere il sampietrino al suo posto, si chiama “mazzabecco”. Parole meravigliose, con le quali riempirsi la bocca. 🙂

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      Ricordo che per lungo tempo mi chiesi perché cami… e poi un pomeriggio arrivò l’illuminazione, e risi come uno scemo da solo nella mia stanza per un bel po’, nello sconcerto generale delle altre persone che sentivano e non capivano…

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  4. gluci77

    Frugolino – che è impazzito vedendo la foto – quando era più piccino diceva “camon”, sia singolare che plurale… L’Ingeriminese mi dice che nei cantieri locali non usa il termine “cami”, ma ha sentito qualcosa del genere nell’ambito dei cantieri dello spettacolo, dove incontra operai di tutta Italia… E comunque mio padre dice “mermellata”! 🙂

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      Eh beh, quello della foto è un tre assi, che porta 10 mc, corrispondenti a 16 quintali, quindi un classico “camio”.
      E mermellata è adorabile, sembra quasi la confettura di Lino Banfi… 😉

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    1. Wish aka Max Autore articolo

      E io ti ringrazio, perché hai colto la dimensione del mio disagio nel cambiamento (e ti ringrazio anche della lusinga, anche se credo di non meritarla). E oltretutto io ero “il figlio di”, cosa ancor più pesante, per me. Questa è una delle ragioni per le quali quell’esperienza finì male. E “cami” non l’ho mai detto. 😉

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