Archivi categoria: Per ridere

Semel in anno

Per ragioni che non sto qui a elencare, la dottoressa Cippi è a dieta da molto tempo. Ed è una dieta molto efficace, e lei debbo dire si sta applicando con una volontà veramente esemplare: nonostante sia passato molto tempo da quando ha iniziato, ha ancora una dedizione paragonabile con quella delle prime settimane.

Ieri sera sono tornato non proprio presto, mia moglie ha detto che non voleva cenare, e l’altra figlia è andata da un’amica. E’ stato un attimo, ci siamo guardati e una corrente magnetica è passata tra di noi, una muta conversazione si è svolta usando solo gli occhi.

“Giulia non c’è, mamma non mangia”
“Che dici?”
“Guanciale in frigo”
“Uova?”
“Sì, le hai comprate tu sabato”
“Sei sicura?”
“Sono sicura”
“Ok, vado”

E mentre nella mia testa partiva questa canzone, mi sono avviato in cucina. Le note risuonavano in testa, e davanti a me c’era una grossa insegna al neon dove lampeggiava

CARBONARA

Affetto il guanciale, lo taglio a dadini, batto l’uovo, grattugio il pecorino, metto il guanciale sul fuoco con appena un filo d’olio, pepe nell’uovo, un’altra sbattutina, l’acqua bolle, giù la pasta, il guanciale sfrigola, un goccio di vino bianco a sfumare, giro la pasta, rigatoni, la morte loro. Ecco, è cotta, scolo, butto nella terrina con l’uovo, aggiungo il guanciale bollente, giro, l’uovo si cuoce ma non fa la frittatina, aggiungo il pecorino, giro bene, si cremola come deve, eccola qui.

IMG_0001

E qui c’è la sequenza

IMG_0002IMG_0003IMG_0004IMG_0005

 

 

 

 

E scatta la mia personalissima pubblicità Mastercard, perché avere la dottoressa Cippi che dice “Papà, le sette meraviglie” davvero non ha prezzo.

Quando si rompe una costola

Era il 2003 o il 2004, se non ricordo male. Dopo un piacevolissimo ritorno alle due ruote tramite uno scooter Majesty 250, messo cortesemente a disposizione da un’amica partita per gli USA, ero arrivato alla determinazione di volere una moto. E così, una sera rientrai a casa dal lavoro e dissi, spavaldo: “Domani mi compro una Hornet”. Mia moglie mi guardò e disse “Hai 43 anni, penso tu possa fare quel che credi, se non impatta esageratamente sul bilancio familiare”. Io avevo (ovviamente) già reperito tutte le informazioni su finanziamenti e quant’altro per cui la riunione straordinaria del CdA si sciolse quasi subito con approvazione all’unanimità dell’extra budget.

E così feci. Comprai una Hornet S. Con cupolino. Sbeffeggiato dagli hornettisti che frequentavo all’epoca, che la giudicavano brutta. Ma a me piaceva proprio così, col suo cupolino. Dopo i primi tempi passati a familiarizzare col centinaio di cavalli che metteva a disposizione (96 per la precisione), ho iniziato a prendere confidenza, e a usarla quotidianamente per andare al lavoro. Era prima che decidessi di fare il corso di guida in pista, per cui la mia reale confidenza col mezzo, e soprattutto la sensibilità, erano davvero ridotte, ora me ne rendo ben conto.

Morale della storia, una sera che ero particolarmente stanco, ed era piovuto da poco, mi sono avviato verso casa; davanti avevo un’utilitaria che non potevo passare (pensavo di non potere, oggi sarei passato tranquillamente) e mi sono accodato, sinché in mezzo ad una curva il tapino frenò bruscamente davanti a me. Io frenai dietro di lui e persi l’anteriore. Morale, scivolata e botta secca a terra, con il guanto sinistro, munito di protezioni rigide sulle nocche, infilato tra l’asfalto e le costole. Costola incrinata. Lì per lì niente male, ma poi, una volta tornato a casa (moto praticamente illesa, un paio di graffi e leva del cambio leggermente storta) sentii che mi doleva parecchio. Lastra il giorno dopo e, come ben sa chi ha avuto una roba del genere, nessuna fasciatura né ingessatura, ma solo tanta pazienza per un mese. Durante il quale avevo fitte di dolore nelle seguenti situazioni: se tossivo, se starnutivo, se ridevo.

Ecco, a questo volevo arrivare, dopo questa lunga premessa. Io ricordo ancora oggi, dopo circa due lustri. Il disagio più grosso di quel mese, per me è stato il non poter ridere. Ridere è fondamentale, è importantissimo. Una risata spezza la tensione, può cambiare una giornata storta in una giornata normale, può rendere una giornata normale meravigliosa. Nell’ultimo paio di giorni ho avuto modo, parlando con alcune persone, di farmi molte risate. Le ho ringraziate, di cuore, e dopo il primo momento di perplessità (sentirsi dire “grazie, perché mi fai ridere” non è detto che sia preso immediatamente come un complimento…) sono riuscito a spiegare che il ringraziamento era assolutamente dovuto. Perché ridere è vita. Ridere è bellezza.

Risata

Le recinzioni di Johnny Palomba – Sette anime

Sette anime. anche in audio.

i discutibili

Che anfatti visto che stamo apparlà de finevita ho penzato che ‘sta recinzione ce stava a cecio. Si c’è quarcosa che nun capite chiedete ni’ i commenti. Una ve ‘a dico prima. Ammucchiasse: fare sesso energicamente.

 

setteannime

“SETTE ESPLOSE PER SETTE FEGATELLI”

chenfatti cestà uno daafinanza che però è bono e cià tutto undramma interiore eallora ancerto momento sengrifa de na mora che ciaveva ercore scaduto eallora lui è umpo’ ingrifato e umpo’ no perché cià tutta nacuestione nteriore interiorissima eallora poi va arompe icoiioni ingiro auno ceco anavecchia auregazzino eppoi va dalla mora cor core scaduto e ie dice tu me piaci perché ciai ercore scaduto e lei ie dice maché davero? eallora poi lui semette tipo addà ingiro aibbisoggnosi umpo’ de cose che sevede nuiestaveno più tipo che se leva locchi e lidà arceco seleva erfegato ipormoni ireni seleva amirza dà via ercervello sestacca le mani e…

View original post 83 altre parole

Le “recinzioni” di Johnny Palomba – Marcellino pane e vino

La prima recinzione pubblicata 😀

i discutibili

Johnny Palomba è il critico cinematografico senza volto che ha adottato il romanesco come lingua per i suoi scritti e che con le sue ‘recinzioni’ ne dice di cotte e di crude sul cinema e lo spettacolo. E’ nato a Bogotà (Colombia) negli anni ’60.

E’ un personaggio simile a Luther Blissett, anche se su scala nettamente minore. Le sue recinzioni sono state lette da attori come Mastandrea, Favino, Giallini, Germano, tutti romani e tutti dotati di grande senso dell’umorismo.

Le recinzioni di Johnny hanno il titolo, un sottotitolo, e poi il pezzo. Alla fine, di solito una piccola morale, che riguarda un amico, il cuggino, o esperienze personali.

Un aiutino per chi non conosce il romanesco. “Stirà le zampe”, o semplicemente “stirà”, significa morire.

View original post

Non ci potevo credere

E invece è vero. Ma vero vero eh. Una app di Microsoft. In sostanza si tratta di un calcolatore che riconosce la scrittura a mano. Cioè io traccio i segni su un tablet, tipo scrivo a mano 5 x 4 e lui mi calcola 20. Che è anche carina come idea, e ci sono un sacco di spunti interessanti, il riconoscimento della scrittura a mano, i conteggi, insomma una cosa che un toscano definirebbe “ganza”. E allora? E allora il problema è il nome. Perché questi geni di Microsoft hanno pensato di unire la parola “calculator” con “inchiostro” che in inglese si dice “ink”. Ed evidentemente non hanno consulenti che parlano l’italiano, altrimenti non credo che avrebbero mai dato l’avallo ad un nome del genere. Sembra che l’app sia stata ritirata, ma a questo link potete ancora trovarne traccia (ed è un link dell’app store Microsoft!)

Inkulator

More er bue e l’asinello e gli Space Muffins

Riguardando il diario di viaggio di Amsterdam mi sono ricordato che ci sono due episodi che ho lasciato fuori. Volevo fare un update, ma poi ho pensato che tutto sommato meritavano dignità di post dedicato. Dicotomizzato, proprio come il titolo; che non ha granché senso senza questa spiega iniziale.

La prima metà del titolo è la prima strofa di una poesiola che mi ha insegnato un po’ di anni fa un membro della mitica Colonna Romana, un gruppo di motociclisti che ho frequentato un po’ in passato. E recita così

More er bue e l’asinello
More la pecora e l’agnello
More la gente con i suoi guai
Ma i rompicojoni nun morono mai

(more=muore, morono=muoiono, cfr Wish aka Max, “I bassifondi della capitale”‘, ed. Adelphimicacazzi)

Che è una bella metafora della vita, tutto sommato. L’ho recitata come un mantra per evitare di saltare addosso alla mia vicina di posto sull’aereo di ritorno da Amsterdam. Eravamo imbarcati, l’aereo un Airbus, file da tre sedili per lato. Io sul sedile che affaccia sul corridoio, sull’altra fila, sempre con affaccio sul corridoio, una biondina intorno ai 25 anni, forse meno, molto nervosa, chiaramente impaurita.

Io avevo sulle ginocchia tutti i miei aggeggi, Blackberry, iPhone, iPad e Kindle. Al momento dell’annuncio che bisognava spegnere i dispositivi elettronici “spengo” il BB (in realtà è uno standby), giro su On il Flight Mode di iPhone e iPad e li metto in stand-by, il Kindle non lo avevo ancora neanche aperto.

Vedo che la ragazzetta mi lancia sguardi preoccupati.

“Scusi” mi dice
“Sì?”
“Ha spento tutto?”
“Sì, ho messo tutto in stand-by e in modal…”
“Guardi che la hostess ha detto di spegnere”
“Guardi che non è proprio il primo volo che faccio, e le garantisco che…”
“A me non interessa, la hostess ha detto di spegnere. Hostess! Hostess!”
(ho pensato che ci sarebbe stato bene un “portace n’antro litro” – questa la capisce solo kuroko)

Lì ho cominciato a recitare il mantra, perché a me va bene tutto, ma che tu neanche accetti di confrontarti, neanche ti preoccupi di capire quello che ti sto dicendo, ma sei solo piena di boria e di certezze, cosa che per me, uomo del dubbio, è già fastidiosa di per se stessa, che tu non mi dai neanche un briciolo di rispetto, mi fa venire voglia di strangolarti. Alla quale, siccome faccio della tolleranza un valore, resisto. Con fatica, ma resisto. Finalmente arriva l’assistente di volo (ecco, che tra l’altro non si chiamano più hostess da lustri, per dire), alla quale spiega in modo concitato che io non ho spento i miei dispositivi elettronici.

L’assistente di volo si volta verso di me e mi dice “Li ha messi in Flight mode?” “Sì” “Sono in stand-by?” “Sì”.

Si volta verso la ragazzina e le dice “Tutto a posto. Piuttosto lei dovrebbe spegnere il suo iPod, grazie”

C’è una giustizia, in fondo…

E veniamo alla seconda metà del titolo, gli space muffins. Andando ad Amsterdam tutti, ma dico tutti tutti tutti, mi hanno nell’ordine:

  • chiesto di riportare del fumo
  • raccomandato di fumare
  • dirmi che tanto era chiaro che andavo lì per quello

L’originalità è una dote in via di estinzione, mettiamola così.

Sta di fatto che dopo aver smesso 7 anni fa ho sempre pensato, e continuo a pensare, di essere comunque una persona “a rischio”. Nel senso che se fumassi nuovamente una sigaretta il rischio di ricominciare ci sarebbe. Nonostante tutto. E però andando ad Amsterdam come si fa? Come diceva l’amico di pani, “sono tornato ad Amsterdam e l’ho riconosciuta dall’odore”. Passando davanti ai coffee shop si sente l’inconfondibile aroma dolciastro della cannabis, e insomma. Insomma mi avevano detto che si potevano assaggiare i cosiddetti Space Muffins. E che anzi, erano fichissimi. Facevano ‘na cifra. E taccio per carità di patria la sorgente dell’informazione. E allora, insistendo e insistendo, perché la consorte si è dissociata da questo mio atteggiamento scapigliato e cccciovane, sono entrato in un coffee shop.

“Hi, do you have muffins?”
“We sure do, sir”
“I mean, ehm, with weed?”
“Sir, we ONLY have weed muffins”.
(Salve, avete muffin? Certo, signore. Intendo, uhm, con l’erba? Abbiamo SOLO muffin all’erba, signore)

Rassicurato da cotanta professionalità me lo sono comprato e mangiato. Era pure buono, al cioccolato. Morbido e gustoso.

Esco, e nulla. 15 minuti, e nulla. mezz’ora, un’ora, un’ora e mezza. Niente di niente di niente. NIENTE. Il vuoto cosmico. Inizio a pensare alle calorie inutili. Penso subito dopo che forse non era così farcito di weed. E che anzi, magari mi hanno fatto il pacco. Ok, mi dico. Va bene così. D’altronde se in Italia rifiliamo pacchi a tutti, beh ci sarà una reciprocità. Ma. Ma arrivati all’ora di pranzo, mentre ero in bagno per fare pipì, ho sentito l’inequivocabile odore che viene dai coffe shop! Quindi c’era eccome la weed! E allora chissà: forse mangiata anziché fumata fa un effetto differente, forse essendo che pur dimagrito peso sempre i miei porci 81 kg e quindi magari ce ne vuole di più, forse con l’età fa meno effetto… Che ne so?

Però, e l’ho scritto anche su faccialibro a caldo, il prossimo che mi dice che gli Space Muffins sono una figata gli spacco la testa. In otto parti uguali.

Correre è un antistress. Ma anche no.

corsa

Lo avevo detto qui, che avrei riprovato a correre. E stavolta mi ci sono messo di buzzo buono. Mi sono attrezzato, ho comprato delle scarpe fichissime (ho sempre sognato di rispondere con nonchalance alla domanda “Ma che scarpe hai?”, e buttare lì “delle Mitzuno…”) e ho iniziato. Solo che, come sempre accade quando si è superficiali, le cose viste da fuori sono una cosa, e viste da dentro sono tutta un’altra. In particolare io ho affrontato la corsa così come avevo affrontato il cammino. In buona sostanza il metodo “dove arrivo arrivo”. Cercando di arrivare ogni giorno un pochino più lontano. E così, un mesetto e mezzo fa, ho iniziato a correre anziché camminare. E mi sono attestato subito su distanze “decenti”. 7-8 km al giorno. Rigorosamente tutti i giorni. Finché mi sono talmente affaticato che mi sono dovuto fermare per un’intera settimana. Che ho usato per ravanare il web alla ricerca di programmi di allenamento. Al termine della ricerca ho imparato che:

  1. E’ indispensabile alternare corsa a camminata, almeno finché non si arriva a delle distanze ragguardevoli
  2. E’ indispensabile fare almeno un giorno di pausa a settimana
  3. E’ indispensabile fare stretching anche prima di uscire, e non soltanto al rientro
  4. E’ meglio fare un po’ di esercizi abbinandoli alla corsa

Nel frattempo la mia collega informatica-per-caso-attrice-e-psicologa-per-vocazione, della quale avevo parlato un po’ di tempo fa, mi aveva detto che aveva iniziato quest’estate a correre, e che stava solo controllando i minuti, senza verificare l’andatura. Io, che sin da quando camminavo avevo Nike+, con tanto di sincronizzazione sul sito, l’ho blastata (come dicono le mie figlie, quanto mi piace usare il gergo cccccciòvane) (che vuol dire che l’ho cazziata e le ho rotto gli zebedei) perché lei doveva assolutamente attrezzarsi comperando l’aggeggino aggiuntivo richiesto dall’iPod per gestire Nike+ e rilevare i tempi. E lei mi ripeteva che in realtà andava piano, e che anzi avrebbe dovuto smettere di fumare, perché le pareva di andare veramente troppo piano.

In tutto questo io (prima dello stop forzoso) ero molto orgoglioso del mio 6’/km medio, perché ero partito da 6’30” e recuperare mezzo minuto in un mesetto mi dava grande carica. E insomma ero molto soddisfatto. Ma allora cosa c’entra tutto il pistolotto sulla collega informatica-per-caso-attrice-e-psicologa-per-vocazione? C’entra, centra. Perché domenica scorsa ricevo questo messaggio sull’aifon

Confesso che il mio primo pensiero è stato TT. TT sta per Tacci Tua, sempre riportato nella piccola bibbia dei detti da bassifondi della Capitale, quella edita da Adelphimicacazzi. Ma come? Dici che corri piano, che devi smettere di fumare, e ti presenti con un 5’31 a km? TT ci sta tutto no?

Ed è lì che si vede la forza del Tao. Perché ho fatto un respiro profondo, poi un altro, e poi ho risposto: “Ma sei bravissima! Sei già sotto i 6 min/km!! Complimentoni!!!” con tre faccine sorridenti.

Ancora rosico.

Casa dolce casa

Qualche giorno fa passeggiavo a Trevignano, quando davanti all’ingresso di un negozietto di mobili e accessori, che poi abbiamo visitato, il mio sguardo è stato attirato da un cartello, sul quale era riportata una citazione di Antoine de Saint-Exupéry

“Ah! La meraviglia di una casa
non è che vi ripari o vi riscaldi,
né che si possiedano i muri,
ma che questa depositi lentamente in noi
riserve di dolcezza.
Che essa formi, in fondo al cuore,
questa mole oscura
da cui nascono, come acque di sorgente,
i sogni,….”

 Ecco. Quando l’ho vista ho pensato che è proprio così, perché a quelle riserve di dolcezza attingiamo nei momenti bui, quei sogni sono quelli che ci ravvivano le giornate.

E tutto questo è stato rasato al suolo, nel breve volgere di una mattinata, da un’orda di unni travestiti da operai. Che da tre settimane mi stanno distruggendo tutte le riserve di dolcezza e tutti i sogni, oltre che fracassarmi gli zebedei. E chiedo scusa a Nanda, che ho saputo oggi che mi legge, ma, come diciamo qui da noi (cfr. “I Bassifondi della Capitale”, Wish aka Max, ed. Adelphimicacazzi), quanno ce vo’ ce vo’!

L’antefatto. Il condominio ha deciso di rifare la facciata dello stabile. In una delle riunioni dove si discuteva dell’opportunità o meno di procedere, ho preso la parola e ho detto “Scusate, ma proprio nell’anno dei Maya dobbiamo fare ‘sti lavori?” Sul serio l’ho detto. C’è ancora gente che mi guarda strano quando mi incontra. E insomma, ci siamo messi ‘sto fardello sulle spalle, tanti euri (ma tanti, eh) al mese per tre anni. Praticamente un mutuo. Dura meno, ma con la rata mensile ci siamo. Vabbè ma questa è un’altra storia. Perché la storia vera è un’altra. Come potevamo, in coscienza, peggiorare una situazione già al limite dell’umana sopportazione sia per disagio, sia per esborso di denaro? Semplice, dissero i miei 5 lettori: aumentando il disagio e aumentando l’esborso!

Appunto. E quindi, in un momento di totale follia collettiva, dovendo ritinteggiare l’appartamento, e avendo pensato da tempo che, dopo vent’anni dalla ristrutturazione, forse il bagno grande era il caso di rifarlo, siamo andati oltre nel ragionamento (ragionamento è una parola grossa, vaneggiamento verrebbe meglio ma mi dicono che non è politically correct) e ci siamo domandati: perché non facciamo tutto insieme, visto che tanto aggiungere disagio a disagio non dovrebbe essere così tremendo?

E ci siamo anche risposti, ché siamo bravissimi a parlarci, domandarci, risponderci. Sentiamo le voci e rispondiamo. Ciascuno risponde alle voci dell’altro. Che non si dica che non abbiamo fantasia, nella nostra acclarata e conclamata follia. Vabbè anche questa è un’altra storia. Una storia di TSO mancati.

Insomma ci siamo risposti che sì, siiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii puòòòòòòòòòòòòòò faaaaaareeeeeeeee! E abbiamo dato vita al mostro. Consistente, come detto nell’incipit, in un’orda di unni travestiti da operai che hanno prodotto una quantità di polvere che neanche il bombardamento di Dresda. Una quantità di cattivo odore che neanche la discarica di Malagrotta. Una quantità di detriti/calcinacci/schifezze che neanche… Non mi viene. Che neanche e basta. Il tutto con un bagno in meno, una cucina che definire disagiata è un capolavoro di understatement, e una sola camera da letto agibile. Al punto che Virna (mia moglie: si chiama Carla ma dal giorno in cui Iaia ha ravvisato una somiglianza è diventata Virna forevah) e la figlia maggiore si sono trasferite al mare, mentre io sono rimasto con la Dottoressa Cippi a presidiare il forte.

Ovviamente, come in una commedia di Feydeau, è successo di tutto. Il materiale che doveva essere a magazzino in realtà doveva essere ordinato; la cornicetta dello specchio invece non è proprio stata ordinata, e l’abbiamo dovuta riselezionare e prendere tra quelle disponibili per non aspettare le calende greche; il cardiochirurgo – pardon, l’idraulico – è stato chiamato al capezzale di altri lavandini moribondi e ci ha dato buca più e più volte; quelli che sul campionario sembravano dei colori tenui pastellati si sono rivelati dei veri pugni negli occhi, costringendoci a tappezzare le pareti con infiniti campioni; e via discorrendo, come chiunque abbia fatto una piccola ristrutturazione vivendo in casa durante i lavori (ché è questa, la discriminante!!!) può testimoniare (son tutti bravi a dare le chiavi di casa all’impresa e tornare a lavori finiti…).

Abbiamo finito? A tre settimane e mezza dall’inizio lavori, a fronte di una durata programmata di due, la risposta è no. Non abbiamo finito. Manca ancora lo specchio, il montaggio del box doccia, del termosifone e del mobile. Quest’ultimo deve ancora arrivare. E lo specchio deve essere ancora costruito, nel senso che potevamo accontentarci di uno specchio bell’e fatto? Nooooooooooooo, sento il coro. Lo specchio è incassato nella parete, e pertanto deve essere ordinato dopo la posa in opera del rivestimento e della cornicetta appositamente predisposta. Ergo, siamo ancora appesi.

Vent’anni fa circa traslocammo, ci siamo trasferiti da Focene, dove abbiamo vissuto per otto anni, a Roma. In quell’occasione, nonostante io sia stato estremamente fortunato, avendo la possibilità di organizzare il trasloco con manodopera fidata, e quindi senza l’ordalia della ditta esterna che rompe tutto, nonostante questo ho ancora un ricordo dell’evento che mi fa affermare, con forza, che un trasloco non si augura neanche al proprio peggior nemico. Ecco. Neanche i lavori in casa.

Gli occhi più grossi della pancia

Ieri ero a pranzo con un collega, io ho preso la mia insalata con mozzarella, lui si è lanciato in una fetta di pesce spada arrosto e, dopo lunga indecisione, ha deciso di accostare anche una mezza porzione di orecchiette con i moscardini. Sta di fatto che alla fine delle orecchiette si è pentito di aver preso entrambi, e il mio commento di getto è stato “hai gli occhi più grossi della pancia”, che è una cosa che mi diceva mia madre quando ero bambino.

Mi ricordo distintamente una volta che accadde, avrò avuto undici anni (mi pare di ricordare che andavo alla scuola media, per questo dico 11) ed ero andato a passeggio con mia nonna. La nonna mi chiese se volessi mangiare qualcosa, era più o meno metà mattina, e io le chiesi un pezzo di pizza bianca. Entrati dal fornaio, la nonna non aveva la più pallida idea di quanta chiederne, e io baldanzosamente le dissi che ne volevo 100 lire. Normalmente non ne prendevo mai più di 50 lire, per problemi di budget, e non mi pareva vero di poter esagerare… Sta di fatto che la pizza la mangiai tutta, ma saltai il pranzo, e mia madre mi disse che avevo gli occhi più grossi della pancia.

Ma il mio rapporto con la voracità non si limita a questo. Quella poveretta di mia sorella ha subito per l’intera infanzia le mie angherie. Mi spiego. Sono sempre stato una buona forchetta sin da piccolo, e anche (purtroppo) molto veloce a mangiare e molto, molto vorace. Bocconi da orco, li chiama mia moglie. Mia sorella invece da piccola aveva un rapporto col cibo non proprio idilliaco, mangiava poco e molto, molto, mooooooolto lentamente. In questa situazione è facile immaginare che quando io finivo quanto avevo nel piatto lei era ancora all’inizio dell’incomincio. E a quel punto io iniziavo a darle il tormento. “Ti va tutto?” “Non lo so, poi te lo dico” “No perché se non ti va tutto è meglio che me lo dici ora, ché poi si fredda” “Non ho idea, te lo dico dopo” “Beh non capisco come faccia a non saperlo, poi lasci sempre la roba nel piatto” “Ok tieni”. Finiva così quasi sempre, e quando non finiva così finiva in pianto con annessa sgridata al sottoscritto, con sganassone opzionale; anche se, a ben pensarci, che a casa mia gli sganassoni più che “una tantum” erano “una semprem” :lol:.

Era vero che lasciava quasi sempre parte di ciò che aveva nel piatto, ma io ero veramente un bel tormento. Debbo dire che lasciare nel piatto qualcosa significava far scattare l’anatema “Pensa ai bambini del Biafra”. L’anatema si è rivelato potente al punto che ancora oggi, con oltre mezzo secolo di vita sulle spalle, io NON POSSO lasciare nulla nel piatto. Non posso proprio, è più forte di me, e per una volta non c’entra col piacere innegabile che mi dà il cibo, è proprio un condizionamento, per il quale non si separa il grasso dal prosciutto, non si buttano i nervetti della carne, e le ossa di pollo si spolpano sino a renderle lucide.

E quindi nella mia testa di bambino affamato (e già ingegnere in pectore con processi razionalmente definiti e scolpiti nella pietra) non mi capacitavo a) che non si fosse in grado di stabilire quanta fame si avesse, o meglio non si riuscisse a dire se si riusciva a finire quanto si aveva nel piatto, e b) che mia sorella non mi fosse grata per l’attenzione che le riservavo dandole una possibilità di scampare l’anatema nel quale quasi certamente sarebbe incorsa!

Valle a capire, le femmine…