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D’interiorità, di fisica moderna e di soprannaturale. Completo di premessa sui quaquaraquà

<Premessa_che_non_c’entra_col_post>
Purtroppo questo non è “un blog che affronta tematiche sociali“. Quindi non parlerò di “BDSM tarocco” nè del nesso di causalità tra sostanze chimiche e omosessualità, né di “Upskirt“, né di dimensione (chissà di cosa?) che conta o che non conta, tutti argomenti profondi e che ovviamente hanno un riflesso filosofico e socio-culturale importante, anzi fondamentale, e che DEVONO far parte di “un blog che affronta tematiche sociali“. Mi domando perché nei blog che “affrontano tematiche sociali” non si parli anche di scie chimiche o della piramide trovata su Marte, che mi sembrerebbero argomenti altrettanto profondi e filosoficamente ficcanti.

Per questo blog faccio fatica a trovare una definizione che vada oltre il titolo. Pensieri occasionali. Tutto qui. Potremmo discutere se un’opinione sulle misure del pistolino sia un pensiero. A me pare che la frase “pensare alle misure del bigolo” sia un ossimoro. Ma tant’è. Ognuno ha le sue fisse, e come sempre mi definisco il profeta del libero arbitrio.

A titolo di “excusatio non petita” mi corre l’obbligo di sottolineare anche io, come già fatto da altri, che questa premessa non si riferisce ad una persona singola, ma ad una categoria: quella che Sciascia definiva i “quaquaraquà”, che vengono dopo gli ommeni, i mezz’ommeni, gli ommenicchioli e i pigliainculo. Soprattutto dopo i pigliainculo. Perché per prenderlo in culo serve una certa dignità, della quale il quaquaraquà non dispone. Il che non significa che il quaquaraquà non lo prenda in culo, soltanto che lo faccia con meno dignità dei piglainculo. In rete è pieno di quaquaraquà, alcuni usano termini desueti come “blogosfera” riferendosi all’intero mondo della rete, il che è francamente patetico, considerando che siamo alle soglie di Internet 3.0. Per capirci, è un po’ come se qualcuno ancora pensasse che il Sole giri attorno alla Terra, o che l’intero Universo sia costituito dal solo Sistema Solare.
</Premessa_che_non_c’entra_col_post> (I quaquaraquà capiranno il riferimento ai tag? Mah!)

Questa immagine è nota come "I pilastri della creazione", è stata scattata dal telescopio Hubble. La trovo molto adatta all'argomento.

Questa immagine, nota come “I pilastri della creazione”, è stata scattata dal telescopio Hubble. La trovo molto adatta all’argomento.

La considerazione sull’Universo ci porta dritti al cuore del post, che prende spunto da un haiku di Ivano, che lui argutamente chiama I.Q. giocando con la pronuncia anglofona, e che solo per questo calembour meriterebbe la mia stima. Ma in realtà Ivano è persona profonda, almeno tale appare dai racconti che scrive, anzi da come scrive in generale. Ho parlato spesso in queste pagine di interiorità complesse. Ecco, a me pare che Ivano disponga di un’interiorità di quelle che io definisco complesse, per cui quando ha postato il suo haiku, ho commentato dicendo che mi sembrava che la sua invocazione al Padre, indicativa evidentemente di fede, cozzasse un po’ con l’idea che mi ero fatto di lui.

Ho ricevuto risposte sia da Ivano sia da Primula, entrambe interessanti e acute, e ho detto a entrambi che un commento non riusciva a sintetizzare il mio pensiero in modo appropriato, e che pertanto avrei scritto un post.

Avviso ai naviganti: sarà una roba lunga, e forse neanche semplicissima.

Parto da lontano, cioè dalla mia passione per la fisica moderna. Per intenderci, parlo della fisica post-Newtoniana, quella che nasce all’inizio del ‘900, con la teoria della relatività ristretta prima, e quella generale poi, da parte di Einstein, e successivamente con lo sviluppo della meccanica quantistica, scienza che studia i fenomeni che accadono nel mondo delle particelle sub-atomiche.

Mi appassiona questa materia, pur non potendomene definire un esperto, perché dimostra sperimentalmente come esista una discrasia tra quello che noi percepiamo e quello che succede “realmente“. E’ chiaro ed evidente che noi disponiamo di un apparato sensoriale estremamente sofisticato, che ci fa percepire la realtà fisica in un modo che difficilmente può essere messo in discussione tout-court. Ciò è talmente vero, che la fisica Newtoniana ancora oggi è usata per applicazioni pratiche delle quali usufruiamo tutti i giorni, come ad esempio la costruzione degli edifici nei quali viviamo. Al tempo stesso però, oggi, dopo l’avvento della meccanica quantistica, noi usiamo oggetti che si basano su effetti che noi non abbiamo modo di percepire e riscontrare con il nostro apparato sensoriale. Tutti noi usiamo un computer, o uno smartphone, o semplicemente un’automobile con una centralina che regola il flusso di carburante. Ecco, alla base di tutte queste cose c’è un fenomeno, che si chiama “effetto tunnel“. Questo fenomeno consente ad un elettrone, qualora si verifichino determinate condizioni all’interno di un pezzo di silicio, di “passare attraverso” una barriera di energia che teoricamente non potrebbe mai superare. Riportata nel macromondo, questa cosa corrisponde a qualcuno in grado di attraversare un muro di cemento armato.

Orbene, mentre noi ci troviamo seduti sul divano di casa nostra, abbiamo piena contezza del fatto che il pavimento su cui camminiamo è strutturato per reggere il nostro peso e quello dei mobili, e altresì piena contezza del fatto che se sovraccarichiamo il pavimento probabilmente si aprirebbe un buco (fisica Newtoniana). Se, mentre siamo su quel divano, prendiamo il nostro smartphone per rispondere ad un commento su wordpress, ecco, non abbiamo esattamente contezza del fatto che in quel momento ci sono milioni di miliardi di elettroni che stanno attraversando barriere di energia tanto invalicabili per loro quanto lo sarebbero per noi le mura della nostra casa. E altrettanto non riusciamo ad avere contezza del fatto che il tempo scorre differentemente se si viaggia a velocità comparabili con quella della luce. Sembra irreale e poco pratico? Ebbene non lo è. Nei nostri navigatori GPS è inserita una correzione che tiene conto del fatto che il tempo sui satelliti da cui arrivano i dati scorre differentemente, se quella correzione non fosse presente le nostre mappe “scivolerebbero” di circa dieci chilometri al giorno.

Potrei parlare anche dell’entanglement, che è una delle cose su cui Einstein si dannava l’anima, un effetto per cui due particelle legate restano legate anche se sono allontanate a distanze enormi. E come si verifica il legame? Semplice, stimolando una particella l’altra reagisce istantaneamente indipendentemente dalla distanza a cui si trova dalla prima. E perché Einstein si dannava l’anima? Perché esiste un assioma, rimasto inconfutato dall’evidenza sperimentale, secondo il quale è impossibile viaggiare a velocità superiori a quella della luce, pari a trecentomila chilometri al secondo, circa. Ebbene, se le particelle di cui parlavamo si trovano a un anno-luce di distanza (che è la distanza coperta dalla luce in un anno, quindi trecentomila chilometri moltiplicato il numero di secondi presenti in un anno, cioè circa trentuno milioni e mezzo, per un totale di quasi diecimila miliardi di chilometri), e continuano a reagire su base istantanea, questo potrebbe significare che esiste una trasmissione di informazione con una velocità ben superiore a quella della luce, visto che riesce in un istante a coprire la stessa distanza che la luce copre in un anno. Studi successivi hanno portato a un’altra ipotesi, assai più suggestiva e affascinante: esiste una realtà distribuita, in cui due particelle legate (entangled) costituiscono un unico pezzo di realtà anche se sono allontanate di decine di migliaia di miliardi di chilometri.

E allora? Cosa c’entra tutto questo con la religione? Non moltissimo, se preso così. Vi chiedo ancora un po’ di pazienza.

Esiste un’altra branca della scienza che utilizza un approccio mirato a superare il meccanicismo newtoniano. E’ l’approccio sistemico, che consiste nel considerare i sistemi non lineari come tali, nella loro complessità, senza tentare di semplificarli e linearizzarli. L’approccio meccanicistico non consente di studiare i sistemi non lineari, a causa di limiti intrinseci negli strumenti matematici utilizzati. Le equazioni differenziali, uno degli strumenti più sofisticati della matematica, riescono a modellare “solo” realtà moderatamente complesse. Attenzione, non sto banalizzando. Le equazioni di Maxwell sono ancora oggi usate per la realizzazione di antenne radiomobili, oltre che in mille altre applicazioni infinitamente più sofisticate. Ma se consideriamo la terra come un unico sistema, e consideriamo la frase di Lorenz, padre degli attrattori omonimi, “Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?“, ecco che ci troviamo di fronte a complessità non affrontabili con la matematica usata nell’approccio meccanicistico. E qui inizia ad entrare in ballo l’approccio sistemico, che vede un sistema complesso come un insieme di parti ma, al contrario dell’approccio meccanicistico, non sostiene che riducendo il sistema complesso a parti elementari e studiando le singole parti si arriva a capire come funziona il tutto. E anzi, si concentra sul concetto di “proprietà emergenti”, definite come quelle proprietà che nascono, “emergono” per il fatto stesso che degli organismi più semplici si sono uniti per formare un organismo più complesso.

Questo approccio porta a dimostrare che, se noi riavvolgessimo il “film” della vita sulla Terra, non è affatto evidente che torneremmo all’uomo, per lo meno all’uomo che conosciamo. Questo aspetto è quello che trovo più intrigante dell’approccio sistemico, e penso che possa essere la base per rispondere (senza pretendere di avere la risposta) al cosiddetto “Paradosso di Fermi”. Fermi, sulla base di indagini statistiche assolutamente solide, calcolò che, considerando solo l’Universo conosciuto, esistono mille miliardi di miliardi (dieci elevato alla ventesima) di pianeti come la Terra. Vale a dire pianeti con una stella alla giusta distanza per avere il giusto calore, con un’atmosfera fatta di azoto idrogeno e ossigeno, eccetera eccetera eccetera. Insomma parliamo di mille miliardi di miliardi di pianeti dove, teoricamente, si sarebbe potuta sviluppare la vita come sulla terra. Ecco, il paradosso di Fermi, nella sua formulazione più semplice, recita: “Dove sono gli altri?” Se usiamo l’approccio sistemico possiamo immaginare che ci siano altre forme di vita che non siano affatto antropomorfe. Forme di vita sviluppatesi milioni di anni prima della nostra e oramai estinte, ovvero ad un livello di conoscenza tale rispetto a noi pari al nostro rispetto alle formiche. Se noi costruiamo un’autostrada, una colonia di formiche che si trova nelle vicinanze è in grado di comprenderne il significato?

Se siete arrivati sino a qui, complimenti. Qui inizio a parlare del mio rapporto con il sovrannaturale.

Innanzitutto, io credo sinceramente che la nostra spiritualità, così come i nostri sensi, così come la nostra intelligenza e la nostra capacità di astrazione e immaginazione, siano proprietà emergenti del nostro organismo. Per questo motivo, credo che non esista un’anima separata dal corpo, ma sono fermamente convinto che la nostra spiritualità sia per l’appunto legata indissolubilmente al nostro corpo.

Credo altresì che siamo, in fondo, acqua e carbonio. E in quanto acqua e carbonio, ancorché parte di un organismo autopoietico (e la pippa sull’autopoiesi ve la risparmio) rimarremo parte di questo universo. Forse in un’altra forma. Non mi riferisco alla reincarnazione. Mi riferisco al fatto che in altre parti di questo immenso Universo le particelle subatomiche che ci compongono potrebbero essere riaggregate in qualcos’altro. O forse potremmo vivere in un Multiverso, cioè in un sistema di infiniti Universi, e chissà in quale potremmo finire, e chissà attraverso quale incomprensibile canale di comunicazione tra l’uno e l’altro Universo. Ma. Ma cerchiamo di essere pragmatici. L’intera storia dell’uomo (dall’Homo Erectus intendo) rappresenta poco più di un battito di ciglia in questo Universo. La nostra vita è una minuscola, insignificante frazione di quel battito di ciglia.

E veniamo al punto, alle religioni e al soprannaturale. Per quanto attiene alle religioni, parlando delle tre religioni monoteiste sono tutte fondate su una serie di dogmi che prevedono una visione antropomorfa dell’Universo, il che, dal mio punto di vista, è sufficientemente dogmatico da meritare di essere rifiutato ab origine. Un poco diverse sono le religioni orientali, che si avvicinano maggiormente ad una visione filosofica che, curiosamente, ha dei punti di contatto impressionanti proprio con la fisica subatomica. Stati coscienziali superiori nei quali si raggiunge l’illuminazione buddista, altro non sono che la capacità di abbandonare la nostra percezione basata sui nostri sensi della realtà e avere una visione dell’Universo a tutto tondo, comprensiva quindi dei fenomeni quantistici e relativistici di cui si diceva.

In tutto questo, io non ho certezze, tranne quella della caducità della nostra esistenza, naturale visto che siamo organismi autopoietici imperfetti, e quindi nel tempo tendiamo a “degradare” sino a morire. Per quanto ho detto sopra, la morte del nostro corpo corrisponde alla fine della nostra spiritualità, legata indissolubilmente ai nostri neuroni che interagiscono col resto del nostro corpo. Ma l’acqua e il carbonio che ci compongono restano. E chissà dove andranno a finire. Io me lo domando tutti i giorni.

Di comunicazioni fuorvianti e di flame inutili

incolparePiù di sei mesi fa la mia cara amica verba scrisse un post intitolato “Tutti dottori”, che per una di quelle strane cose che a volte succedono nel web, è diventato virale e ha generato decine di migliaia di hit sul suo blog. Il succo del post era che se qualcuno che ha studiato, o ha competenze in un certo campo, fa una certa affermazione, di norma questa affermazione ha un grado di affidabilità maggiore rispetto ad affermazioni contrarie fatte da persone che conoscono la materia solo superficialmente.

Cito questo post perché di recente è girata una petizione su Internet con la quale si chiedeva di non concedere il patteggiamento all’uomo che, ubriaco, e alla guida di un’auto rubata, aveva ucciso una bimba in un incidente stradale. La petizione continuava dicendo che dopo soli 4 mesi di carcere all’omicida erano stati concessi gli arresti domiciliari.

Ora ci sono un paio di considerazioni che vorrei fare. La prima è che formulare una comunicazione in questo modo è completamente fuorviante. I 4 mesi di detenzione infatti non fanno parte della pena, ancora da stabilire, ma della carcerazione preventiva cui è stato sottoposto l’uomo. Carcerazione preventiva che continua, mediante gli arresti domiciliari, su decisione del giudice. Un altro mio caro amico, redpoz, ha spiegato con dovizia di particolari in questo post tutte le ragioni giuridiche per cui questo omicidio si configura come colposo, come la legge preveda la possibilità di patteggiare, e come solo chi ha titolo a decidere, cioè il giudice, è in grado di prendere una decisione.

Su questa vicenda ci sono stati più post, uno molto toccante di un altro caro amico, intesomale, che ha dichiarato in sintesi che pur solidarizzando con la madre della vittima sul piano personale, e pur dichiarandosi incapace di frenare il proprio singolo istinto omicida nel caso fosse stato lui il diretto interessato, si dichiarava contrario alla logica del branco, e della “vendetta collettiva”, quale si configurava tra le righe quella richiesta di petizione.

Curiosamente le argomentazioni di intesomale e quelle di redpoz, partendo le une da un piano meramente emotivo e sociologico, le altre da un piano tecnico giuridico, coincidono nelle conclusioni, vale a dire: quella petizione è sbagliata. E’ sbagliato chiedere vendetta collettiva sul piano sociologico, è sbagliato tentare di influenzare un giudice sul piano giuridico.

E’ stato invece interessante seguire un filone parallelo che si è aperto, sul sistema giustizia, che è culminato in un post di TADS, sulla pena di morte e in generale sul sistema giustizia.

Ma torniamo alle modalità di comunicare, e all’incipit che riguarda verba. Noto, con orrore, che sempre più spesso la stragrande maggioranza delle persone non approfondisce le notizie, non si cura di capire il perché e il percome, non si interessa di andare oltre l’apparenza. Quel che succede è che questa stragrande maggioranza si fa trascinare dall’emotività e dal messaggio (come detto fuorviante). Perché insisto sul concetto di fuorviante? Perché mentre da una parte si chiede di non concedere il patteggiamento, dall’altra surrettiziamente si introduce il tema della carcerazione preventiva, senza parlare esplicitamente del fatto che non è una pena detentiva, e si lascia quasi intendere che il reo se la caverebbe con 4 mesi di carcere. Ovvio che l’emotività salga, ovvio che si puntino migliaia di dita contro il ladro ubriaco che uccide una bimba.

Ora un dibattito serio potrebbe esser impostato andando a studiare la giurisprudenza che classifica gli omicidi per incidente stradale come colposi, e affidandosi a tecnici o a studi personali esprimere un’opinione che abbia un senso. Che il sistema giustizia sia migliorabile è opinione condivisibile, abbiamo molti esempi di malfunzionamenti a tutti i livelli, primo tra tutti l’eccessiva lunghezza dei processi, specialmente per le cause civili.

Ma come dicevo in un mio commento, non ricordo più in quale blog, io non credo nella democrazia diretta. Non credo nell’interpellare la rete per sapere se sia giusto utilizzare o meno l’energia nucleare. Non credo neanche che questo debba essere deciso usando lo strumento referendario. Io credo fermamente nella democrazia rappresentativa. Credo nell’elezione di persone che si avvalgano di tecnici competenti ed esperti che sappiano dare gli indirizzi strategici di politica del paese.

Io non sono cieco, vedo quale scempio sia stato fatto di questo povero paese. E continuo a chiedermi come poter uscire da questa situazione. Sono fermamente convinto che la strada non sia quella della democrazia diretta. Credo che dovremmo rifondare la classe politica. E rifondare questo paese. Ricostruendo la fiducia nelle istituzioni e il senso della comunità, il rispetto basico per i diritti degli altri, il concetto che la propria libertà finisce dove inizia quella altrui. Il senso dello Stato, in altre parole. Distrutto da troppi anni di malgoverno, e di troppi inviti a considerare solo ed esclusivamente il proprio orticello.

In buona sostanza, un buon primo passo per tutti potrebbe essere quello di informarsi bene. Di andare alla radice dei problemi. Di verificare le fonti. Di non accontentarsi di puntare il dito sull’onda dell’emotività, ma di fermarsi un attimo e pensare: “ma siamo sicuri che sia tutto qui?”

Einstein diceva una cosa meravigliosa: “everything should be made as simple as possibile, but not simpler”. Letteralmente vuol dire che tutto dovrebbe essere descritto nel modo più semplice possibile, ma non più semplicemente di così. Il significato è che determinate complessità non possono essere semplificate più di tanto. Se non è tutto bianco o tutto nero, ma è parte bianco e parte nero, non si può semplificare dando risalto solo alla parte bianca o alla parte nera, trascurando il resto.

E così forse si risparmierebbe anche qualche flame inutile.

PS: ringrazio di cuore tutte le persone che mi hanno scritto chiedendomi se va tutto bene. E’ un periodo in cui non ho molto tempo a disposizione, e in cui il morale non è proprio al massimo. Ma sono qui, alive and kicking.

Di interiorità, di discussioni, di Web 3.0. E di mostri dentro.

depressioneAvviso ai naviganti. Questo è un post molto lungo. Lo è perché prende le mosse da una discussione iniziata su un post nel mio blog, che si è incrociata con un post su Facebook.
E allora mi sia consentito un incipit. Più volte, nell’ultimo periodo, specialmente con riferimento ad una penosa vicenda che ha generato chiacchiere degne di un gallinaio, ho letto il termine “blogosfera”. Sono oramai tre decenni che mi occupo di informatica, e di rivoluzioni ne ho viste molte. Una cosa ho capito, ed è che questo mondo è in continua evoluzione. C’è chi lo comprende, e si comporta di conseguenza, c’è invece chi, come sempre, è restio al cambiamento. Il problema vero è che negli ultimi anni i cambiamenti sono talmente veloci che star loro dietro è diventato complesso. Ecco, alla soglia del web 3.0, leggere “blogosfera” mi fa sorridere. E mi fa sorridere perché nel momento in cui si verifica un incrocio tra Facebook e un blog, siamo davvero alle soglie del web 3.0. Che è un web dove si comunica in tutti i modi possibili e immaginabili, dove non è importante se parliamo via twitter, via whatsapp, via facebook, o via blog. La cosa veramente importante è che un certo numero di persone trovano interessante un tema e dicono la loro. Usando il mezzo che è più congeniale. Ma senza rifiutare di usarne altri. Per questo sorrido se sento parlare di “blogosfera”. Ma di cosa parliamo? Di wordpress? Di Blogspot? Dal mio punto di vista questa esperienza mi ha insegnato che se si vuole comunicare si comunica. Indipendentemente dal mezzo. E questa è la sostanza di internet. Secondo me. Persone che esprimono pareri. Giusti o sbagliati non ha importanza. Io non ho certezze, ho solo dubbi. E vedere scrivere cose che quoterò nel prosieguo del post, parte su Facebook, parte sul mio blog, vedere persone che si sono aperte, che hanno detto la loro senza schermi, senza problemi, con pacatezza, con il rispetto dovuto alle opinioni altrui, ecco questo mi ha aperto il cuore. Chiudo la polemica sulla blogosfera dicendo che esiste solo una cosa: si chiama Internet. Ed è una infrastruttura straordinaria, che, per il tramite di mezzi differenti (Facebook, Twitter, Tumblr, WordPress, Blogspot, e chi più ne ha più ne metta), riesce a mettere in contatto persone: persone, non nickname; persone, non entità virtuali. E la microscopica esperienza che ho vissuto de visu mi ha insegnato che su temi interessanti le persone si esprimono senza schermi, senza pregiudizi, senza il timore di essere giudicati. Perché portano esperienze dirette, esperienze vissute, esperienze che hanno lasciato un segno.

Ebbene, dopo questo lungo incipit, quello di cui voglio dar conto, perché è qualcosa che mi ha profondamente colpito, è l’incrocio tra blog e facebook. Il “pretesto” è stato il suicidio di Robin Williams. Nel mio post avevo citato una frase che sostanzialmente contestava la considerazione, che molti fanno quando un personaggio ricco e famoso si suicida, che recita più o meno “ma perché mai una persona come quella dovrebbe essere depresso?”. Contemporaneamente l’amico Erre (Roberto Emanuelli) aveva scritto un post su Facebook, dove lanciava una sorta di provocazione analoga, esordendo con “Non amo gli omaggi pubblici ai morti suicidi per depressione et similia”. E per uno strano meccanismo di incroci, grazie a koredititti, amica di entrambi, che ha avvisato Erre su Facebook di quanto avevo scritto, il mio post si è mischiato con quello di Erre, dando luogo ad un fenomeno davvero da Web 3.0

Infatti, partendo da questo incrocio si è sviluppata una discussione sulla depressione. Personalmente detesto questo termine, non ne ho uno alternativo, ma credo che nell’immaginario collettivo depressione finisca per significare tutto ciò che la depressione in realtà non è. La depressione non è insoddisfazione. La depressione non è autocommiserazione. La depressione non è scontentezza. Se vogliamo tentare di dire cosa sia la depressione, e porto la mia esperienza personale, la depressione è una condizione di tristezza assoluta. Una condizione nella quale non c’è nulla che possa rischiarare un panorama che appare plumbeo, anzi, nero, nero come la pece. Una condizione nella quale non si vede futuro. Sì avete letto bene. Non si vede futuro. Non è una questione di vedere un futuro nero. La questione è di non riuscire neanche ad immaginarlo, un futuro. Una condizione nella quale si fa quel che si deve fare per mero condizionamento educazionale, che viene da lontano, da quando siamo piccoli, da quando siamo stati educati.

Ecco. Dopo questo riporto, semplicemente, spezzoni di frasi prese da facebook e dal blog. Il tema è il suicidio di Robin Williams. Ma non solo, grazie a dio. Il tema è cosa ci dice quel suicidio, cosa ci stimola, cosa ci fa pensare. E se vorrete commentare, dare un contributo, io sarò felice. Perché vuol dire che non esiste una “blogosfera”. Vuol dire che esistono delle persone che vogliono comunicare, e che non ha importanza il mezzo col quale comunicano. Una precisazione. Le frasi riportate non sono “le migliori”. Ci sono stati una pluralità di giudizi e di opinioni, molti di questi dicevano cose simili con parole differenti. E per questo motivo non riporto l’autore, ma solo il concetto. E mi corre l’obbligo di ringraziare tutti, per aver contribuito con così tanta passione alla discussione

quei RIP che proprio non mi vanno giù

La depressione fa paura… neanche fosse contagiosa… tutti sono bravi a parlare “dopo”, ma nei momenti critici al massimo danno pacche sulle spalle aggiungendo un “reagisci” di circostanza (cosa molto irritante per chi sta male, tra l’altro)

[parlando di Robin Williams] sono scomparsi ebola,Gaza,i morti ammazzati con inaudita violenza

Tutti sono compassionevoli verso un cancro, o diabete o cardiopatie. Un depresso viene evitato da tutti è noioso pesante antipatico. Allontanato dal giro degli amici.

Leggendo i vostri commenti mi accorgo della totale assenza dell’umanità, nel senso specifico del termine.
Non voglio credere che siamo una moltitudine arida e individualista.
La depressione è terribile e devastante ma non tutti ci voltano le spalle.

ma nessuno di loro sa che io, giornalmente, da ormai più di tre anni prendo antidepressivi, pillole per dormire e ansiolitici. Pensano che io sia felice, che non mi manchi nulla ….. invece!!!!! Ora lo sai anche tu e molte altre persone che però non sanno nemmeno chi io sia. Cerco sempre di sorridere, di farmi vedere contenta, ma dentro non è così. Io non mi suiciderò mai, ho troppa paura della morte, non riuscirei mai a farlo, almeno penso. Ecco ora sai più cose su di me, ma nessuno dei miei cari leggerà mai questo commento e questo è quello che conta per me. Non voglio che quelli ai quali voglio bene soffrano per me.

le varianti che ruotano attorno alle parole “cura” e “attenzione” non sempre approdano tra le persone “giuste”. E per giuste intendo empatiche, capaci, coraggiose nel mostrare il proprio cuore.

E’ sempre più facile immedesimarsi nelle vicissitudini di un personaggio famoso che in quelle di “casa propria”

Ognuno ha la propria tribù di demoni da sfamare, domare,riempire di botte…dir loro state zitti, che volete da me.

Non so, sinceramente non so quanto il nostro non voler svelare all’esterno queste “tribù di demoni” come dice Samantha coincida con l’assenza – di fatto – di un ascolto vivo, caloroso, partecipe.

quel senso di perdizione nel buio, senso di inadeguatezza e apatia che la depressione infligge trova principalmente sempre e solo noi come “primo alleato”. Ho scritto “alleato” con intento paradossale.

Mi viene in mente la frase di Pavese:
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi”

I mostri dentro. Ormai so che solo chi li ha capisce davvero.

la sensibilità è un giano bifronte, come l’allegria.. succede che dopo una lunga estenuante risata si concluda con un pianto dirotto. Succede, esiste. E’ un fatto. Come è un fatto una diagnosi di morbo di Parkinson e di Alzheimer…sono forse migliori di un cancro???

Quando cose del genere succedono, tutti sono pronti a dire “ma come, non se n’erano accorti i suoi familiari, i suoi amici?”. La verità è che è difficile, davvero difficile che qualcuno si renda conto di quello che si agita in un’altra persona.

La depressione è davvero una malattia? O non è forse, almeno in certi casi, una visione del mondo, dovuta proprio a una certa particolare sensibilità? In fondo per poter sorridere di tutto bisogna desacralizzarlo, cioè renderlo meno importante (perdona il linguaggio alla buona), e quando rendi tutto meno importante, cosa ti resta di solido a cui aggrapparti?

come risolvi? Anestetizzi la sensibilità? Cioè salvi una persona da sè stessa ottenendo però come risultato una persona diversa? Ma è poi possibile cambiare una persona o l’unica cosa che si può fare è tenere in qualche modo a bada i suoi fantasmi, perciò non guarendolo bensì tenendolo in una specie di limbo da cui basta comunque spostarsi di un passo per ritornare al punto di partenza (Un po’ come succede con le varie dipendenze)? Comunque le mie sono riflessioni con poche certezze…

Un depresso conclamato pian piano inizia a non aver voglia di curare il corpo e l’aspetto, ha fastidio, fino a detestare il contatto con l’acqua, il sonno è agitato o inizia l’insonnia, la sera è già un casino di angoscia perché arriva la notte, ma l’alba è atroce significa riprendere il contatto con una vita che non ha più alcun interesse..

Cosa succede a queste persone? siamo fatti di chimica e qui c’è qualche intoppo, bisogna ripristinare i collegamenti affinché si producano i fenomeni chimici che essendosi interrotti hanno provocato il danno. Prima si interviene e più certa è la ripresa, nel senso che non si sono danneggiati seriamente i centri nervosi del cervello. La serotonina è fondamentale,ma non è l’unica a mancare

i farmaci guariscono davvero e del tutto la depressione o una volta “rotto il vaso” questo rimarrà sempre incrinato e perciò più sensibile agli urti, e per ovviare a questa sensibilità si dovrà ricorrere continuamente ai farmaci (ed ecco creata una dipendenza)?

O forse, azzardo, bisognerebbe distinguere fra depressione dovuta solo a cause “chimiche”, curabile (o che almeno si può tenere sotto controllo) coi farmaci, e tutte le altre. Ma forse il confine non è così netto…

ecco, certe fragilità, certe debolezze, sono dietro l’angolo, ci colpiscono, ci penetrano, ci attanagliano, e non sono visibili… dietro a certi atteggiamenti e apparenze si nascondo vulnerabilità insospettabili, sensibilità labili, a volte speciali, altre sublimi e geniali,

Solo che la gente non si rende conto che gli psicofarmaci sono dei palliativi e non la cura: forniscono il neurotrasmettitore ma non risistemano le sinapsi sbagliate. Se uno è fortunato magari le sinapsi tornano a posto da sole, ma io ci credo poco e -nonostante io sia una razionalista cerebroide asimbolista- sono fermamente convinta che la psicoterapia sia l’univa vera via verso la guarigione, certo magari supportatata dai farmaci psicotropi ma da soli quelli non bastano; e che la cura della depressione, così come di ogni altra malattia psichichica, sia molto più complicata di quello che sembra ed anzi a volte non esiste. Il nemico non è una cellula matta, non è un vaso occluso: è la tua mente.

La propria mente va accolta, apprezzata e amata valorizzandola anche nei difetti, chi non sa amare se stesso non riesce ad amare gran che fuori. La psicoterapia nella depressione deve essere accompagnata dai farmaci giusti, e si può arrivare anche a fare senza medicine. La vedo come una malattia dell’anima e le ferite dell’anima sono quelle più difficili da vedere e da curare.

E’ ovvio che hanno a che fare con la soggettività, ma dobbiamo renderci conto che anche la soggettività può ammalarsi, per quanto non sia possibile (e neanche augurabile) stabilire uno stato di normalità valido per tutti.
C’è una enorme ignoranza sulle malattie mentali, e anche una buona dose di menefreghismo da parte dello stato. E’ giusto dover pagare così tanto uno psichiatra/psicanalista?

Chi ha attraversato quello stato di abbandono totale e di ripudio verso se stessi ha una cicatrice indelebile dentro che ogni tanto torna come una mandala, una nenia, una passacaglia… si trasforma, gli elementi intorno cambiano…ma quel ricordo resta lì.. cresci e vai avanti nella quotidianità, ti realizzi in tante cose eppure quella ferita resta; a ricordarti che ce l ‘ hai fatta ma che resti vulnerabile. Un essere irripetibile e stupendo nella sua unicità , nelle sue fragilità, nelle sue quotidianità e nella sua intimità.

Ecco, se siete arrivati a leggere sino a qui siete degli eroi. Io non ho conclusioni. Non ho verità svelate. Ho solo dubbi. Ho un po’ di esperienza personale in merito. Quel che credo io, per quel che vale, è che i farmaci siano importanti per non affogare, e che abbiano un ruolo preciso. Ma da soli non sono la soluzione. E’ necessario guardarsi dentro. E’ necessario farsi prendere per mano da qualcuno pratico. E questo qualcuno pratico deve essere quello giusto per noi. Ecco, se posso permettermi un suggerimento, credo sia importante essere estremamente esigenti verso il terapista. Deve essere quello giusto per noi. E un altro suggerimento. Se avete un amico depresso, o semplicemente giù di morale, non ditegli “pensa a chi sta peggio”. Non serve proprio a niente. Perché come dicevo altrove, se servisse, noi tutti, TUTTI, dovremmo essere consapevoli che quando diciamo “ci vediamo stasera” vuol dire che ci vedremo stasera, a meno che non ci caschi un cornicione addosso. Mentre in una parte importante di mondo, “ci vediamo stasera” è una speranza, che potrebbe CONCRETAMENTE non avverarsi. E allora, solo pensando a questo una volta ogni sei ore, dovremmo tutti fare capriole dalla mattina alla sera. E invece no. Per cui “pensa a chi sta peggio” è (scusate il francese) una grandissima cazzata. E se vi andrà di dire la vostra, sarà per me un grandissimo piacere ascoltare tutti voi.

Chi sono io?

Chi sono io?” chiese un giovane ad un Maestro di spiritualità.
“Sei quello che pensi” rispose il saggio. “Te lo spiego con una piccola storia”.
Un giorno, dalle mura di una città, verso il tramonto si videro sulla linea dell’orizzonte due persone che si abbracciavano.
“Sono un papà e una mamma”, pensò una bambina innocente.
“Sono due amici che s’incontrano dopo molti anni”, pensò un uomo solo.
“Sono due mercanti che hanno concluso un buon affare”, pensò un uomo avido di denaro.
“È un padre che abbraccia un figlio di ritorno dalla guerra”, pensò una donna dall’anima tenera.
“È una figlia che abbraccia il padre di ritorno da un viaggio”, pensò un uomo addolorato della morte di una figlia.
“Sono due innamorati”, pensò una ragazza che sognava l’amore.
“Sono due uomini che lottano all’ultimo sangue”, pensò un assassino.
“Chissà perché si abbracciano”, pensò un uomo dal cuore arido.
“Che bello vedere due persone che si abbracciano”, pensò un uomo di Dio.
“Ogni pensiero, concluse il Maestro, rivela a te stesso quello che sei”.

Per la serie niente è per caso, mi sono imbattuto in questa storia proprio nel giorno in cui qualcuno mi ha detto che il motivo per cui ho un blog è vendere mercanzia. Libri, nello specifico. Lì per lì mi ero fatto una risata, poi quell’affermazione mi è tornata in mente quando ho letto questo pezzo.

E con questo spunto, ho iniziato a riflettere su me stesso, su quello che penso. La cosa difficile, come sempre, è non fermarsi alla superficie. Sono i pensieri profondi, che vanno analizzati. Quelli che magari non riusciamo neanche a visualizzare con chiarezza, concetti e sensazioni che sono stimolati dalla vibrazione di corde profonde.

E’ come quando vibra una corda grossa. La frequenza è talmente bassa, e lo spessore della corda è talmente grosso, che non si sente alcun suono, ma si avverte la vibrazione dentro il petto. Ecco, se si riesce ad avvertire, il pensiero profondo, va preso e guardato bene, anche e soprattutto se ci rivela cose che non ci piacciono del nostro modo di essere. E’ il primo passo per generare un cambiamento. E d’altra parte, come dico sempre, un viaggio di mille li comincia con un singolo passo.

oscillazioni

Il silenzio

czb3_10Esiste qualcosa di più grande e più puro
rispetto a ciò che la bocca pronuncia.
Il silenzio illumina l’anima,
sussurra ai cuori e li unisce.
Il silenzio ci porta lontano da noi stessi,
ci fa veleggiare
nel firmamento dello spirito,
ci avvicina al cielo;
ci fa sentire che il corpo
è nulla più che una prigione,
e questo mondo è un luogo d’esilio.
(Kahlil Gibran)

Quando succede qualcosa di brutto vedo tanti che sventolano le gengive con la lingua, alcuni si crogiolano nella bruttura, altri si limitano a ribadire l’ovvio. Quando c’è una vittima come si fa a non solidarizzare. Ma detto questo, che è dovuto, ma davvero prossimo all’ovvio, sul resto, tutto il resto, preferisco tacere.

Perché

snoopy-writerLeggevo oggi il blog di Vetrocolato, che seguo sempre con grande piacere, e ho letto questo post, “Il compendio di Pasqua”, dove c’è quello che tecnicamente verrebbe definito un “flusso di coscienza”, vale a dire un flusso di pensieri molto intenso ed emotivamente molto coinvolgente, che parla di tristezza e di felicità, di quel mix di sentimenti contrastanti che capitano a coloro che hanno un’interiorità complessa, quelli di cui ho parlato qui (e realizzo solo ora che sono passati mesi e mesi, guardando la data del post). Ma non è questo l’oggetto del contendere, ma piuttosto la chiusa, del post di Vetrocolato, che riporto qui per mia comodità.

Ed anche questa è una cosa che mi chiedo spesso, perché scrivete nei vostri blog? A qualcuno l’ho già chiesto, qualche risposta è stata simile alle mie, altre cose, invece, credo ancora di non averle comprese, ma ancora mi chiedo, perché avete deciso di lasciare le vostre cose qua dentro. Cosa vi rende, a livello personale, il blog. Se avete voglia o possibilità di dirlo, mi farebbe piacere saperlo. Per quanto mi riguarda, il blog non è fine a se stesso, se non ci sono scambi e opinioni, rimane solo un diario, e quelli li vendono in tutte le cartolerie.

Ecco, cosa mi rende, a livello personale, questo blog? Perché ci scrivo dentro? La voglio prendere alla lontana.

Come dico spesso, ed è scritto anche nella copertina del libro, “Niente è per caso” per me non significa un cieco e onnipotente fato che tutto dispone e tutto decide, lasciando inerte e inefficace il libero arbitrio del singolo. Credo piuttosto che significhi che ognuno di noi ha un suo percorso interiore; credo anche che attorno a noi accadano moltissime cose; credo, infine, che noi ci accorgiamo di una specifica cosa che ci accade attorno solo se siamo al punto giusto del nostro percorso, se siamo “pronti” per vederla. E siccome ce ne accorgiamo con un certo tempismo, pensiamo al caso. E invece io dico che non è per caso. 🙂

Ecco, il mio percorso ad un certo punto mi ha portato a scoprire la scrittura. Ho ringraziato molte volte chi me l’ha fatta scoprire, e la ringrazio ancora oggi. Ho scoperto la scrittura come fonte di espressione, come mezzo per dare corpo alla mia interiorità, alla mia necessità di espressione. E la mia scrittura non è una scrittura completamente “libera”, non fluisce con naturalezza come accade a parecchi che conosco, per lo meno non nell’ambito della narrativa. Ho un sacco di problemi con i plot, con la drammaturgia dei racconti. Faccio una fatica enorme a trovare le trame. Una volta trovata una trama di massima, ecco lì inizio a muovermi bene, a trovarmi a mio agio. Perché l’accento passa dalla drammaturgia all’emozione. E a me piace scrivere di emozioni. E scrivere di emozioni significa inevitabilmente scrivere delle proprie emozioni, oltre che di quelle altrui.

E allora, cosa mi rende il blog? Innanzitutto è un modo per “buttar fuori”, quando il livello di guardia sta per essere raggiunto, o semplicemente è abbastanza alto. Se il livello di guardia si supera, neanche la scrittura serve. Ma questo è un altro tema. Quindi un primo ritorno è nel sollievo che viene dopo aver tirato fuori cose. Ma, come dice bene Vetrocolato, questo non sarebbe nulla senza il confronto. Più di qualche volta ho letto commenti che hanno dato inizio a scambi via email, belli e intensi. Talvolta ci sono commenti che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Talvolta ci sono commenti che mi portano fuori dal tempo e fuori dallo spazio. L’interazione con persone dall’interiorità complessa. Questo mi rende, e per questo scrivo, qui e altrove.

C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria

Anzi d’antico… grazie a elli, che, dopo neanche sette giorni dal momento in cui glielo avevo chiesto, mi ha confezionato una nuova header image, che contiene le cose che mi caratterizzano. La moto, il libro, e la pastasciutta. Tre cose che so fare. Tre cose che mi piace fare. Mancherebbero il tao e la meccanica quantistica, ma queste due le so fare meno. E mi piace tanto questa scritta.

Grazie molte, elli. Grazie di cuore.

Un compleanno indimenticabile

DSC_0108Mi piacciono tanto i simboli. Un simbolo contiene una pluralità di significati, è assai più “parlante” di tante parole. E questa foto è un simbolo eccellente per rappresentare quello che è successo ieri pomeriggio. Ieri io sono stato sommerso dall’affetto di tantissime persone. Sono stato abbracciato da tutti quelli che sono venuti alla presentazione. Sono stato abbracciato dalle emozioni che mi ha regalato Ferdinando Maddaloni, leggendo due dei racconti del libro con una bravura, una carica empatica fortissima. La lettura del secondo racconto letto, “Il sopravvissuto”, mi ha commosso. Mi ha commosso perché Ferdinando ha letto nel modo in cui io avevo scritto. Mi ha fatto rivivere i momenti in cui quel racconto l’ho riversato sulla tastiera, in una prima stesura che è straordinariamente simile alla versione finale, perché era un concentrato di sentimenti che è letteralmente traboccato dal mio intimo. Ho vissuto una sensazione simile a quando ho scritto Alba Quantistica, quella sensazione di entanglement provata con kuroko. Ecco, Ferdinando ha dato voce al mio sentire, ha dato un ritmo ai miei sentimenti, ha dato emozione alle mie parole. E’ stato meraviglioso. E devo ringraziare elinepal, che ha moderato con una professionalità pazzesca, “rubandomi” la parola quando mi sono dilungato troppo, battendo i tempi in modo magistrale, guidando tutti in un evento che è stato per me uno dei più bei momenti della mia vita.

E’ stato bello riabbracciare persone che non vedevo da anni, alcuni da decenni, rivedere persone ritrovate da poco, conoscere e riconoscere blogger, trovare compagni di corso della scuola di scrittura, rivedere amici, parenti, colleghi, conoscenti. E’ stato emozionante parlare, cercare di spiegare, rendendomi conto di non riuscire, perché se avessi dovuto realmente spiegare non mi sarebbero bastate ore, giornate intere. Spiegare cosa mi passa per la testa, dove trovo il tempo, parlare del frullatore, che sta sempre lì a girare nel dietro della testa, parlare di come è cominciata, di come è continuata, di come continua ancora. Parlare di inquietudine, di tristezza e di allegria, di bianco e nero, di sole e luna, di giorno e notte, ma tutto vissuto in modo quantistico, non qui O lì, ma qui E lì, come dico sempre quando cerco di riassumere il principio di indeterminazione di Heisenberg. Si può essere tristi e allegri contemporaneamente? Si può essere luminosi e bui contemporaneamente? La risposta è sì, ed è quando ci si lascia andare senza cercare di controllare emozioni come queste, che i personaggi iniziano a parlare e a governare le storie, che gli intrecci vanno a posto, che le conclusioni arrivano.

E ieri sera è stato un entanglement allargato, perché io le ho sentite tutte, le persone che c’erano, e ho anche sentito quelle che non c’erano, le ho sentite forte, fortissimo. Ecco perché quell’immagine di quell’abbraccio è così fortemente rappresentativa della giornata. Ma niente è per caso, io lo dico sempre, e così elli ha trovato questa ispirazione meravigliosa e ha immortalato un momento, e non è un caso che sia proprio quello, tra i tanti scambiati, l’abbraccio che ha colpito elli, perché la persona che ho abbracciato in quella foto sta rivedendo la luce dopo un periodo molto buio, e il simbolo quindi si carica ancor di più di energia positiva.

Grazie a chi c’era. Grazie a chi mi ha pensato. Che c’era ugualmente.

E prima. Prima della presentazione una torta che mai me la scorderò. Mai, in tutta la mia vita.

torta

La perfezione

Ho ricevuto un commento al post precedente, quello sulla voragine, nel quale mi si diceva di essere perfetto, o meglio “imperfettamente perfetto”, per il fatto di mostrare, denudare, un aspetto di me non graffiante, non allegro, non mondano. E che questo mi rende completo. La mia opinione è che la perfezione non sia di questo mondo. O meglio, se ci riferiamo al microcosmo, e se penso alla meccanica quantistica, ai fenomeni di entanglement ad esempio, ecco allora posso pensare che la perfezione esista davvero. Ma poi, quando tentiamo di riportare questo microcosmo perfetto nel nostro macrocosmo, ci troviamo di fronte al paradosso del gatto di Schroedinger, che filosoficamente per me rappresenta proprio l’impossibilità di mischiare micro e macro. E quindi, traslando, l’impossibilità di avere la perfezione.

Perfetto è il simbolo del Tao, dove bianco e nero sono ugualmente distribuiti, e dove al centro della massima intensità del nero c’è un puntino bianco e viceversa. Un simbolo statico che si anima dinamicamente non appena attribuiamo un significato a quel puntino, non appena pensiamo al Tao in una forma di evoluzione temporale, non appena ci rendiamo conto che tutto è in eterno divenire, in costante cambiamento, e che quando una situazione qualunque raggiunge il suo punto apicale, in nuce già reca in sé il proprio opposto, che si svilupperà e crescerà sino a raggiungere il suo apice e a quel punto recherà nuovamente in sé il proprio opposto. E’ una modellazione perfetta, questa, e come tale risulta non totalmente e non completamente applicabile, proprio in forza del fatto, a mio parere, che la perfezione non è di questo mondo. E quindi, ancorché abbiamo dei cicli riconoscibili (le stagioni, esempio tra tutti), all’interno di questi cicli si verificano infinite variazioni che li rendono tutti unici e differenti uno dall’altro.

Ed è per questo che non mi sento perfetto, per il solo fatto di mostrare i miei neri insieme con i miei bianchi. E non mi sento neanche completo, per dirla in linea con l’interpretazione data in premessa. Credo che un blog sia uno strumento, che ciascun blogger usa come ritiene opportuno. Nel mio specifico caso il blog rappresenta esattamente quanto indicato nel titolo. Un serbatoio di pensieri occasionali. Non c’è regolarità alcuna nei miei post, non c’è un filo logico, non c’è continuità. Quando ho un pensiero di qualche tipo, lo affido al blog, come un naufrago su un’isola affida al mare i propri scritti chiusi in bottiglia. E non è casuale che mi piaccia tanto contemplare il mare, e che ne parli spesso. Il blog mostra una parte di me.

Spesso, tra il serio e il faceto, dico di me che “sono un ragazzo semplice”. Apparentemente è così, e per certi versi non è neanche tutta apparenza. Ci si interfaccia con me in modo semplice, chiaro. Non è difficile. Ma se si vuole scavare nel profondo, allora bisogna penetrare strati successivi, come quelli di una cipolla. E scava scava, si arriva ad un nucleo inaccessibile, dove solo io posso entrare. E dentro questo nucleo, nascosto, ce n’è un altro, che a volte è inaccessibile financo a me. E’ da lì che arriva l’energia che fa aprire le voragini, è da lì che arriva l’energia che mi costringe nel buco. Ma è da lì che arriva anche l’energia che mi fa contemplare la bellezza, che mi fa apprezzare un concetto espresso tra le righe, che anima la scrittura di cose che mi piacciono e che qualcuno trova interessanti. E come io leggo tra le righe altrui, ci sono persone che riescono a leggere tra le mie. A volte, in post “anonimi”, nel senso non specificamente orientati a descrivere me stesso, chi mi conosce bene ha saputo riconoscere un bisogno inespresso, disagio o gioia che fosse. Questo stesso post rappresenta una chiave di lettura straordinaria, per un numero limitato di persone, che sono quelli che con pazienza sono riusciti a penetrare strato dopo strato per arrivare sino al nucleo. Per gli altri resterà un esercizio di scrittura. O al massimo un tentativo di descrizione interiore.

Come ha detto intesomale, “la perfezione puzza di museo delle cere”.

Primo! – L’Amatriciana del Fascinoso Ingegner Max è qui direttamente dall’Argentina…ahem no. Gravina!

Lo ribloggo, perché Iaia ha scritto delle cose talmente belle che sono rimasto senza parole, io che quando hanno distribuito il dono della sintesi ero per funghi.

iaia guardo "maghetta"

Quando questo luogo si è trasformato, ovvero quando oltre al sogno-disegno si è unito il mostro-cibo, in una cucina psicola(va)bile c’è stato sempre un “primo”.  Sotto ogni giorno e sotto ogni commento. Mi legano moltissimi ricordi a Max ma se dovessi mai sceglierne uno. Se mai dovessi sintetizzare in una sola parola direi: primo.

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