Riporto qui di seguito la traduzione di un articolo di Jonathan Carroll la cui versione originale può essere trovata qui.
Alla fine del film “Una lunga domenica di passioni”, dopo molti contrattempi e difficoltà l’eroina si riunisce col suo adorato fidanzato. L’unico problema è che l’amante è stato ferito molto seriamente alla testa, e ha totalmente perso la memoria. Quando si riuniscono, lui non sa chi sia lei. Nel recente film “Lontano da lei”, Julie Christie interpreta una donna malata di Alzheimer che gradualmente perde la memoria, e con essa la capacità di riconoscere suo marito, sposato molti anni prima. Alla fine di entrambe le storie i “dimenticati” guardano ai loro partner con un sentimento di desiderio misto confusione, perché ancorché essi siano proprio lì davanti a loro, loro non sono più “lì”, non sono affatto lì. In entrambi i casi questo porta alla domanda fondamentale: che cosa fa di noi quel che siamo? La nostra fisicità? I nostri ricordi? I nostri legami con altre persone? Le nostre conquiste (compresi i figli)? Altre cose, forse più ineffabili o indefinibili? Queste sono cose buone per una seria discussione ontologica, in un’aula dove si insegna filosofia, ma anche una domanda intrigante che può essere mandata da una parte all’altra del tavolo da ping pong che puoi visualizzare nella tua mente mentre ti lavi i denti stasera: che cosa fa di me quel che sono? Se togli questo o quello (la memoria, il senso dell’umorismo, o la vista, ad esempio), si tratterebbe sempre di me? O la perdita di cose di questo tipo farebbe scomparire il me che conosco?
Ho scritto un racconto, recentemente, su questo. E credo che se perdiamo la memoria, se siamo vittime di una malattia degenerativa, ebbene non siamo più noi. Non lo siamo. Siamo altri. Il racconto lo riporto qui di seguito.
Il sogno
Ero seduto sul divano, a leggere. Sentii l’acqua del lavandino scorrere in bagno. Si aprì la porta, e la vidi uscire lentamente dalla stanza.
– Buongiorno, Clara. Dormito bene?
– Sì, grazie – rispose asciutta.
– Vuoi un caffè?
– Magari dopo, ora no, grazie.
Si diresse verso la finestra, vacillò un attimo, come se le avesse ceduto una gamba, si aggrappò allo stipite. Mise una mano sugli occhi. Mi alzai, dirigendomi verso di lei.
– Va tutto bene?
– Mi gira la testa, ora mi passa.
Manteneva la mano sugli occhi, pollice e indice allargati, quasi a proteggere il viso, era poggiata contro il muro, la testa leggermente china in avanti.
– Cosa c’è che non va, Clara? Ti conosco da trent’anni, non è un giramento di testa.
– Ho fatto un sogno orribile, ma non ne voglio parlare.
Una lacrima spuntò da sotto la sua mano, e cadde a terra. Rimasi a guardare la goccia sul pavimento, affascinato dalla sua forma perfetta. Pensai che dietro la bellezza data dalla perfezione di una forma si può nascondere qualunque bruttura.
– Sei sicura di non volerne parlare? Forse ti farebbe bene – insistetti dolcemente. Clara fu scossa da un singhiozzo. E di nuovo fui colpito dall’armonia. Un movimento sinuoso che partiva dal bacino, un’onda che percorreva lo sterno e la schiena, simultaneamente, per arrivare alle spalle, e propagarsi lungo le braccia, le mani, le dita. E arrivare finalmente al collo, alla testa, alle labbra. Un suono soffocato, ma inequivocabile. Clara lasciò ricadere la mano lungo il fianco e mi guardò, con il viso rigato di lacrime.
– Mi rinchiudevi!! Mi rinchiudevate!!! – gridò Clara, forte. Il viso era tirato in un’espressione di strazio infinito. La circondai in un abbraccio, un braccio dietro la schiena, una mano a carezzarle la testa, che mi poggiava sul petto, come quando eravamo giovani. Cominciò a piangere accorata, con lunghi e profondi singhiozzi che la squassavano e le facevano quasi rimbalzare la guancia contro di me. Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi, non sembrava avere la forza, o la voglia, di abbracciarmi. Continuai a carezzarle la testa, dolcemente e delicatamente, poggiando di quando in quando qualche bacio a fior di labbra sui suoi capelli, lievemente. Clara piangeva e singhiozzava, io l’abbracciavo e la carezzavo. Aveva spesso degli incubi, ma era la prima volta che la vedevo così stravolta.
– Vuoi dirmi di che si tratta? – le sussurrai dolcemente.
– Mi rinchiudevate. Tu, mi rinchiudevi. Io ero un po’ svanita, ma non così tanto. E tentavo di dirvelo, tentavo in tutti i modi. Ma voi niente. Tu, niente.
– Voi chi?
– C’erano anche i figli. Eravate tutti contro di me, è stato un tradimento di tutti. Di tutti, Ema, di tutti…
Ricominciò a singhiozzare forte,ma questa volta mi abbracciò. Non era proprio un abbraccio, era aggrappata alle mie spalle da dietro e da sotto, le aveva come uncinate con le mani, sembrava cercare un appiglio per restare salda, per non cedere allo sconforto. Un appiglio per uscire dal sogno e rientrare nella realtà. Mi aveva chiamato con quel nomignolo che amavo tanto e così raro, oramai, un troncamento del nome che usavano in pochi, la maggioranza delle persone mi chiamava Manu, solo lei mi chiamava Ema, insieme con pochi, pochissimi amici intimi. Così come io la chiamavo Clà. Tanto tempo prima.
– Ero scappata, avevo capito che qualcosa non andava, ed ero scappata. Non so dove mi trovassi, sembrava un bosco. È a un certo punto arrivava Fabio, e mi diceva “Mamma ma che stai facendo qui, vieni, torniamo a casa”.
Le parole uscivano a ondate, quasi buttate fuori di forza, come se pronunciarle richiedesse un’energia inusuale. La voce non era piagnucolosa, ma rivelava una tristezza profondissima. Ero turbato, per la vividezza delle immagini che mi trasmetteva, e anche per il coinvolgimento dei figli, da lei sempre anteposti a tutto e a tutti.
– Era distaccato, Fabio – continuò – Cioè, lo sai com’è Fabio, lui è sempre distaccato, non è mai stato affettuoso come Lucia, che sta sempre lì ad abbracciare e baciare. Ma era freddo. Freddo come un assassino. Come un assassino, Ema, come un assassino… – Clara ricominciò a singhiozzare forte. L’abbracciai stretta e restammo così, cristallizzati, fino a che non recuperò un po’ di calma. Allora le proposi di sederci sul divano, presi un bicchiere d’acqua, glielo portai e mi sedetti accanto a lei. Guardava nel vuoto e raccontava. Non singhiozzava più, ma le lacrime continuavano a scendere. Ogni tanto si passava la mano sul viso, infastidita, come se non volesse asciugarle, ma scacciarle via.
– Mi sono avviata con Fabio, abbiamo camminato affiancati lungo il sentiero, a un certo punto è squillato il suo telefono, ha risposto, ho sentito che diceva “Sì, è con me, arriviamo”. Gli ho chiesto chi era, mi ha detto che era Lucia, gli ho chiesto perché, mi ha detto che mi stavate cercando tutti. Poi siamo usciti dal bosco, siamo arrivati in una casa, e c’era anche Lucia che mi aspettava. Siamo entrati tutti insieme, e ho salito una rampa di scale. In cima alla rampa c’era un ballatoio sul quale si affacciavano due porte. Attraverso la porta di sinistra vedevo delle persone vestite di bianco, che mi stavano chiaramente aspettando. Nella stanza di fronte invece c’era una scrivania, e c’eri tu, Ema. Mi sono guardata indietro, ho cercato di incrociare lo sguardo di Fabio, e mi sono sentita morire, Ema. Mi ha guardato come se stesse guardando una cosa, allora mi sono girata verso Lucia, ma lei ha voltato la testa e non si è neanche avvicinata. Niente, Ema. Neanche una parola, neanche una carezza, niente. È lì che ho capito. E ti ho guardato allora, Ema. Ti ho detto che non c’era bisogno che mi rinchiudessi, che potevi fare quel che volevi, che se volevi anche avere una storia io non avrei detto nulla, ma non c’era bisogno di rinchiudermi, Ema, non c’era bisogno di rinchiudermi…
Clara si prese il viso tra le mani, e ricominciò a piangere silenziosamente. Le misi il braccio attorno alle spalle e la attirai verso di me, la coccolai pian piano, di nuovo le baciai la testa, leggermente.
– Non mi rinchiuderai, Ema, vero?
– Ma cosa ti salta in testa, non dirlo neanche per scherzo! Era un sogno, ricordi?
– Giuramelo, Ema. Giurami che non mi rinchiuderai!
– Te lo giuro, Clara. Lo sai che non potrei mai. Preparai un caffè, la macchinetta era accesa, presi una cialda e la inserii, lo feci lungo, come piace a lei, glielo portai; ne feci uno anche per me, mi sedetti sul divano. Bevemmo lentamente, tenendoci per mano.
– Clara, oggi è domenica, ed è ancora presto. Perché non torni a letto, dormi un po’ e ti riprendi da questo brutto sogno, e poi magari quando ti svegli ce ne andiamo al mare. Che ne pensi? – Clara annuì distrattamente. Si alzò, la seguii e mi sedetti sul letto accanto a lei. Le carezzai il viso, delicatamente. Rimasi a coccolarla finché non si addormentò. Mi alzai, spensi la luce del comodino, chiusi silenziosamente la porta dietro di me. Uscii.
Percorsi lentamente il centinaio di metri che mi separavano dalla persona che volevo incontrare. Bussai, mi aprì.
– Ha avuto un incubo. Me lo ha raccontato con una lucidità che non aveva da anni. Mi ha chiamato per nome, ha ricordato anche i nomi dei figli.
– Venga, Emanuele, si metta seduto. Cerchi di tranquillizzarsi, la vedo agitato. – Fu il mio turno di prendere il viso tra le mani, e di iniziare a piangere silenziosamente.
– Mi ha fatto giurare di non rinchiuderla, dottoressa. Gliel’ho dovuto giurare. Non so se gliel’ho mai raccontato, ma noi avevamo un patto. Se uno dei due si fosse ammalato di una malattia
degenerativa, l’altro lo avrebbe ucciso. Ma quando hanno diagnosticato l’Alzheimer di Clara io non ce l’ho fatta, a rispettare il patto. E ogni notte mi disprezzo per questo. Perché sono egoista, e preferisco che lei ci sia. E l’avrei tenuta in casa, se avessi potuto, se fosse rimasta tranquilla; ma poi ha iniziato a essere autolesionista, e in casa è diventato troppo pericoloso.
– Emanuele, sa bene che non c’erano alternative al ricovero. Ne abbiamo parlato molte volte, ricorda? Piuttosto mi dica, era agitata?
– No, l’ho messa a letto, e ho aspettato che si addormentasse. Dorme, vero?
La dottoressa voltó gli occhi verso una batteria di monitor che aveva accanto. Il viso di Clara era sereno. Dormiva tranquilla, respirando lentamente, con il viso pacifico e rilassato. Avevo pensato di passare la mattina in clinica, ma ero davvero provato. Clara mi aveva riconosciuto dopo un anno e più che non succedeva. Sapevo che avrei passato il resto della giornata a torturarmi pensando se preferivo essere riconosciuto e parlare di un incubo così straziante, o essere trattato come un illustre sconosciuto. Mi asciugai gli occhi, salutai la dottoressa e me ne andai.