Ieri ero a pranzo con un collega, io ho preso la mia insalata con mozzarella, lui si è lanciato in una fetta di pesce spada arrosto e, dopo lunga indecisione, ha deciso di accostare anche una mezza porzione di orecchiette con i moscardini. Sta di fatto che alla fine delle orecchiette si è pentito di aver preso entrambi, e il mio commento di getto è stato “hai gli occhi più grossi della pancia”, che è una cosa che mi diceva mia madre quando ero bambino.
Mi ricordo distintamente una volta che accadde, avrò avuto undici anni (mi pare di ricordare che andavo alla scuola media, per questo dico 11) ed ero andato a passeggio con mia nonna. La nonna mi chiese se volessi mangiare qualcosa, era più o meno metà mattina, e io le chiesi un pezzo di pizza bianca. Entrati dal fornaio, la nonna non aveva la più pallida idea di quanta chiederne, e io baldanzosamente le dissi che ne volevo 100 lire. Normalmente non ne prendevo mai più di 50 lire, per problemi di budget, e non mi pareva vero di poter esagerare… Sta di fatto che la pizza la mangiai tutta, ma saltai il pranzo, e mia madre mi disse che avevo gli occhi più grossi della pancia.
Ma il mio rapporto con la voracità non si limita a questo. Quella poveretta di mia sorella ha subito per l’intera infanzia le mie angherie. Mi spiego. Sono sempre stato una buona forchetta sin da piccolo, e anche (purtroppo) molto veloce a mangiare e molto, molto vorace. Bocconi da orco, li chiama mia moglie. Mia sorella invece da piccola aveva un rapporto col cibo non proprio idilliaco, mangiava poco e molto, molto, mooooooolto lentamente. In questa situazione è facile immaginare che quando io finivo quanto avevo nel piatto lei era ancora all’inizio dell’incomincio. E a quel punto io iniziavo a darle il tormento. “Ti va tutto?” “Non lo so, poi te lo dico” “No perché se non ti va tutto è meglio che me lo dici ora, ché poi si fredda” “Non ho idea, te lo dico dopo” “Beh non capisco come faccia a non saperlo, poi lasci sempre la roba nel piatto” “Ok tieni”. Finiva così quasi sempre, e quando non finiva così finiva in pianto con annessa sgridata al sottoscritto, con sganassone opzionale; anche se, a ben pensarci, che a casa mia gli sganassoni più che “una tantum” erano “una semprem” :lol:.
Era vero che lasciava quasi sempre parte di ciò che aveva nel piatto, ma io ero veramente un bel tormento. Debbo dire che lasciare nel piatto qualcosa significava far scattare l’anatema “Pensa ai bambini del Biafra”. L’anatema si è rivelato potente al punto che ancora oggi, con oltre mezzo secolo di vita sulle spalle, io NON POSSO lasciare nulla nel piatto. Non posso proprio, è più forte di me, e per una volta non c’entra col piacere innegabile che mi dà il cibo, è proprio un condizionamento, per il quale non si separa il grasso dal prosciutto, non si buttano i nervetti della carne, e le ossa di pollo si spolpano sino a renderle lucide.
E quindi nella mia testa di bambino affamato (e già ingegnere in pectore con processi razionalmente definiti e scolpiti nella pietra) non mi capacitavo a) che non si fosse in grado di stabilire quanta fame si avesse, o meglio non si riuscisse a dire se si riusciva a finire quanto si aveva nel piatto, e b) che mia sorella non mi fosse grata per l’attenzione che le riservavo dandole una possibilità di scampare l’anatema nel quale quasi certamente sarebbe incorsa!
Valle a capire, le femmine…