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Da cosa nasce coso

Ebbene sì, la fatica della full immersion estiva di cui ho parlato nel post precedente è stata premiata, e il mio racconto è stato pubblicato su MagO, la rivista della scuola Omero. Potete trovarlo a questo link, oppure leggerlo qui di seguito. Grazie tantissimo a Luigi Annibaldi e a Lucia Pappalardo, curatori di MagO, oltre che ai due geni Paolo Restuccia ed Enrico Valenzi, che sono stati i miei editor. 

La bellissima copertina di Luigi Annibaldi © Luigi Annibaldi

Da cosa nasce coso

“Scusami, vado un attimo a lavarmi le mani”
Ti sorride. Sei finalmente a cena con la specializzanda che ti piace tanto. Hai tentato di invitarla dal primo giorno in cui l’hai vista in ospedale ma, a causa di incompatibilità di turni e di impegni vari, sono passati due mesi prima di realizzare il desiderio. Le sorridi a tua volta, ti alzi e ti dirigi verso il bagno.
Entri, dentro c’è un tizio, che gesticola e punta le dita qua e là. Ti guarda, e poi bruscamente ti chiede dov’è il coso, quello per asciugarsi le cose. Sei un neurologo, e riconosci immediatamente la patologia, è un’afasia verbale con anomia, il disturbo che impedisce di trovare le parole giuste da usare.
“Il telo, dice? È là, guardi, dietro quella colonna”
“Ah grazie, grazie mille. La ringrazio della cosa, quella cosa che dai a quelli in difficoltà, quando gli batti una pacca sulle cose, quelle sotto il collo…”
Ci sono le spalle, sotto il collo, pensi.
“Comprensione?”
“Sì ecco, la ringrazio della comprensione”
“Ma si figuri, Non ne parliamo neanche”
Rimani in silenzio, ma il tizio resta piantato davanti a te. È agitato, pieno di tic, non riesce a star fermo ma neanche a muoversi per andare ad asciugarsi. Vuoi trovare un modo per liberartene in fretta, vuoi tornare dalla specializzanda il prima possibile. Ma sei pur sempre un medico e gli chiedi se ci sia qualcosa che non vada.
“Qualcosa? Tutto non cosa! Non c’è cosa che cosi! Cosa!”
Vorresti non esserci mai entrato, in quel maledetto bagno. Ti giri verso il lavabo e ti lavi le mani, sperando che la finisca lì, ma il tizio, inesorabile, riprende a parlarti.
“Di tutto, mi è cosato. Una cosa dietro l’altra, come si chiama, quando una cosa ti fa cosare, e tu ti cosi male…”
“Disgrazia?”
“Ecco, disgrazia. Una cosa dietro l’altra. Mia cosa mi ha cosato, sei cosi fa”
A quel punto ti succede una cosa strana. Le tue orecchie sentono “cosa”, “cosato”, “cosi”. Ma, incredibilmente, capisci. Capisci che la moglie lo ha lasciato sei mesi fa. Capisci lui, ma non capisci cosa sta succedendo. E non ti fidi di questa comprensione, così tiri un respiro profondo e fai finta di non aver capito.
“No scusi, non ci arrivo a questa…”
“Mia cosa, quella che ho cosato venticinque anni fa”
“Sua moglie?”
“Esatto, mia cosa! Mi ha cosato, quella cosa!”
Di nuovo senti cosa cosato e cosa, e capisci di nuovo che la moglie lo ha lasciato. Non chiedi conferma sul “cosa” finale, non hai voglia di ascoltare una complicatissima spiegazione di cosi e cose che si conclude con un deludente “troia”.
“Beh”, replichi, “non è detto che sia una brutta cosa essere lasciati, a volte è una liberazione”
“No, lei non cosa, non è solo mia cosa che mi ha cosato. Poco dopo mia cosa è cosata, aveva un brutto coso al coso”
Capisci perfettamente che si tratta della sorella, che aveva un brutto male al seno, e che è morta. Ma di nuovo scatta il rifiuto, decidi di non fidarti, in fondo “brutto male” è abbastanza intuibile, e decidi di indagare, per capire se sia effettivamente la sorella. Nel frattempo un pensiero si affaccia timidamente: e se davvero… se davvero fossi in grado di capire il linguaggio degli afasici… Pensi già a pubblicazioni, congressi, risonanza internazionale… Soffochi il pensiero.
“Un brutto male mi dice? E chi è morto?”
“Mia cosa, la figlia di mio coso e mia cosa”
“Sua sorella?”
“Sì mia sorella”
Rimani perplesso. Sei combattuto, da una parte vuoi verificare se davvero tu hai ricevuto questo dono, la capacità di capire gli afasici, dall’altra vuoi tornare dalla specializzanda. Decidi di fare un altro passo.
“Certo questo non aiuta, mi rendo conto”
“Non è finita, perché ho anche cosato il mio posto di coso”
“Ha perso il lavoro?”
“Sì, ho cosato il coso, ho cosato il coso…” gli si rompe la voce, ma continua “Ho anche cosato che coso a fare, e ho cosato di cosarmi molte cose, ma non ci sono mai cosato, c’è sempre stato un coso che me lo ha cosato”
Ha pensato, giustamente, che campava a fare, e ha tentato di suicidarsi, più volte, ma senza riuscirci, ogni volta un incidente ha impedito di arrivare alla fine.
Sei euforico, pensi che se sei riuscito a comprendere un arzigogolo del genere, allora è certo che il dono ce l’hai. Capisci gli afasici! Una valanga di soldi ti aspettano… Lasci al tizio il tuo biglietto e gli fissi un appuntamento per l’indomani mattina.
Tornando al tavolo ti senti come se camminassi a venti centimetri da terra. Ora puoi finalmente concentrarti sulla specializzanda, e l’euforia che ti pervade di consente di sfoderare tutto il tuo fascino. Tra sguardi d’intesa, contatti pseudocasuali, espressioni del viso, capisci rapidamente che lei ci sta, che gli piaci e che la serata si concluderà a letto. Finite di cenare, chiedi il conto, paghi, l’aiuti a infilare il soprabito.
Mentre uscite avvicini la bocca al suo orecchio e le mormori: “In che cosa preferisci cosare? Cosa mia o cosa tua?”

Omero

barcaSe io leggessi questo post sul blog di qualcun altro penserei che è una marchetta. E se leggessi un post che inizia con una formula carina per indicare che non è una marchetta penserei “excusatio non petita accusatio manifesta”. Detto tutto questo, pensate un po’ quel che volete. Questo post non è una marchetta perché i racconti pubblicati nel libro sono stati scritti prima che io mi iscrivessi, tranne l’ultimo. E questo post non è una marchetta perché Omero non ne ha certo bisogno.

Omero è la scuola di scrittura creativa più antica d’Italia. Sono nati da 26 anni, più di un quarto di secolo, più di cinque lustri. Non si resta sul mercato per più di cinque lustri se non si ha un buon prodotto per le mani. E Omero il prodotto ce l’ha eccome. Anzi ne ha due. Si chiamano Enrico Valenzi e Paolo Restuccia. Che hanno una formula che funziona. Ho fatto “Narrativa 1”, che è durato 10 settimane, lo scorso anno, e sto seguendo ora “Narrativa 2”, che è cominciato da 5 settimane e ne durerà altre 15. Al termine deciderò se fare Narrativa 3, devo capire bene se il focus è sul romanzo o se c’è spazio anche per uno che, almeno per ora, vuole scrivere solo racconti.

Il martedì sera, quando vado a scuola, per me la festa inizia quando mi metto in macchina. Perché so che passerò due ore in un tempo e uno spazio differenti dal mio. Perché so che per due ore sarò in un altro mondo. Un mondo fatto di narrativa. Un mondo fatto di racconti. Racconti scritti da autori celebri, da autori meno celebri, da compagni di corso. Un mondo fatto di spiegazioni, di comprensione di principî che magari erano intuibili, ma non così chiari come lo diventano una volta che siano stati esplicitati. La suddivisione in tre atti, il giorno più importante del protagonista, il punto di vista, il ritmo, il movimento, il dialogo. Solo per citare alcune delle cose che sono state trattate, alcune (come i tre atti) che sono diventate una specie di “tormentone”, un mantra da ripetere, o col quale confrontarsi settimana dopo settimana.

La scuola funziona perché la formula è vincente. No un attimo. Prima di questo la scuola funziona perché Enrico e Paolo sono pazzescamente bravi. E perché danno l’anima lì dentro. E perché ci credono. Ci credono a tal punto che, quando recentemente hanno costituito una casa editrice, hanno comprato in blocco i diritti su determinati racconti, perché ce n’era uno di cui si erano innamorati, e quell’uno doveva essere preso. A qualunque costo. E quell’uno valeva la pena di essere preso perché ancora oggi, quando Enrico e Paolo lo leggono, si rompe loro la voce. Perché Enrico e Paolo, dietro quell’aria da “brutte persone”, come dico loro sfottendoli, hanno una sensibilità enorme. Ecco, crederci significa questo. Crederci significa che ci sono delle cose che vengono prima di tutto il resto. Crederci significa che le priorità sono ben stabilite. Che è chiaro cosa deve venire prima. Prima deve venire la sostanza. Poi, dopo, il business. Che non può, e non deve essere trascurato, perché se i business case non stanno in piedi le avventure, anche romantiche, finiscono. Ma la bravura è proprio questa, è far tornare un business case per 25 anni senza rinunciare ad un epsilon di qualità e di sostanza. E riuscire a trasferire un’aula in un altro tempo e in un altro spazio, ogni volta.