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Di interiorità, di discussioni, di Web 3.0. E di mostri dentro.

depressioneAvviso ai naviganti. Questo è un post molto lungo. Lo è perché prende le mosse da una discussione iniziata su un post nel mio blog, che si è incrociata con un post su Facebook.
E allora mi sia consentito un incipit. Più volte, nell’ultimo periodo, specialmente con riferimento ad una penosa vicenda che ha generato chiacchiere degne di un gallinaio, ho letto il termine “blogosfera”. Sono oramai tre decenni che mi occupo di informatica, e di rivoluzioni ne ho viste molte. Una cosa ho capito, ed è che questo mondo è in continua evoluzione. C’è chi lo comprende, e si comporta di conseguenza, c’è invece chi, come sempre, è restio al cambiamento. Il problema vero è che negli ultimi anni i cambiamenti sono talmente veloci che star loro dietro è diventato complesso. Ecco, alla soglia del web 3.0, leggere “blogosfera” mi fa sorridere. E mi fa sorridere perché nel momento in cui si verifica un incrocio tra Facebook e un blog, siamo davvero alle soglie del web 3.0. Che è un web dove si comunica in tutti i modi possibili e immaginabili, dove non è importante se parliamo via twitter, via whatsapp, via facebook, o via blog. La cosa veramente importante è che un certo numero di persone trovano interessante un tema e dicono la loro. Usando il mezzo che è più congeniale. Ma senza rifiutare di usarne altri. Per questo sorrido se sento parlare di “blogosfera”. Ma di cosa parliamo? Di wordpress? Di Blogspot? Dal mio punto di vista questa esperienza mi ha insegnato che se si vuole comunicare si comunica. Indipendentemente dal mezzo. E questa è la sostanza di internet. Secondo me. Persone che esprimono pareri. Giusti o sbagliati non ha importanza. Io non ho certezze, ho solo dubbi. E vedere scrivere cose che quoterò nel prosieguo del post, parte su Facebook, parte sul mio blog, vedere persone che si sono aperte, che hanno detto la loro senza schermi, senza problemi, con pacatezza, con il rispetto dovuto alle opinioni altrui, ecco questo mi ha aperto il cuore. Chiudo la polemica sulla blogosfera dicendo che esiste solo una cosa: si chiama Internet. Ed è una infrastruttura straordinaria, che, per il tramite di mezzi differenti (Facebook, Twitter, Tumblr, WordPress, Blogspot, e chi più ne ha più ne metta), riesce a mettere in contatto persone: persone, non nickname; persone, non entità virtuali. E la microscopica esperienza che ho vissuto de visu mi ha insegnato che su temi interessanti le persone si esprimono senza schermi, senza pregiudizi, senza il timore di essere giudicati. Perché portano esperienze dirette, esperienze vissute, esperienze che hanno lasciato un segno.

Ebbene, dopo questo lungo incipit, quello di cui voglio dar conto, perché è qualcosa che mi ha profondamente colpito, è l’incrocio tra blog e facebook. Il “pretesto” è stato il suicidio di Robin Williams. Nel mio post avevo citato una frase che sostanzialmente contestava la considerazione, che molti fanno quando un personaggio ricco e famoso si suicida, che recita più o meno “ma perché mai una persona come quella dovrebbe essere depresso?”. Contemporaneamente l’amico Erre (Roberto Emanuelli) aveva scritto un post su Facebook, dove lanciava una sorta di provocazione analoga, esordendo con “Non amo gli omaggi pubblici ai morti suicidi per depressione et similia”. E per uno strano meccanismo di incroci, grazie a koredititti, amica di entrambi, che ha avvisato Erre su Facebook di quanto avevo scritto, il mio post si è mischiato con quello di Erre, dando luogo ad un fenomeno davvero da Web 3.0

Infatti, partendo da questo incrocio si è sviluppata una discussione sulla depressione. Personalmente detesto questo termine, non ne ho uno alternativo, ma credo che nell’immaginario collettivo depressione finisca per significare tutto ciò che la depressione in realtà non è. La depressione non è insoddisfazione. La depressione non è autocommiserazione. La depressione non è scontentezza. Se vogliamo tentare di dire cosa sia la depressione, e porto la mia esperienza personale, la depressione è una condizione di tristezza assoluta. Una condizione nella quale non c’è nulla che possa rischiarare un panorama che appare plumbeo, anzi, nero, nero come la pece. Una condizione nella quale non si vede futuro. Sì avete letto bene. Non si vede futuro. Non è una questione di vedere un futuro nero. La questione è di non riuscire neanche ad immaginarlo, un futuro. Una condizione nella quale si fa quel che si deve fare per mero condizionamento educazionale, che viene da lontano, da quando siamo piccoli, da quando siamo stati educati.

Ecco. Dopo questo riporto, semplicemente, spezzoni di frasi prese da facebook e dal blog. Il tema è il suicidio di Robin Williams. Ma non solo, grazie a dio. Il tema è cosa ci dice quel suicidio, cosa ci stimola, cosa ci fa pensare. E se vorrete commentare, dare un contributo, io sarò felice. Perché vuol dire che non esiste una “blogosfera”. Vuol dire che esistono delle persone che vogliono comunicare, e che non ha importanza il mezzo col quale comunicano. Una precisazione. Le frasi riportate non sono “le migliori”. Ci sono stati una pluralità di giudizi e di opinioni, molti di questi dicevano cose simili con parole differenti. E per questo motivo non riporto l’autore, ma solo il concetto. E mi corre l’obbligo di ringraziare tutti, per aver contribuito con così tanta passione alla discussione

quei RIP che proprio non mi vanno giù

La depressione fa paura… neanche fosse contagiosa… tutti sono bravi a parlare “dopo”, ma nei momenti critici al massimo danno pacche sulle spalle aggiungendo un “reagisci” di circostanza (cosa molto irritante per chi sta male, tra l’altro)

[parlando di Robin Williams] sono scomparsi ebola,Gaza,i morti ammazzati con inaudita violenza

Tutti sono compassionevoli verso un cancro, o diabete o cardiopatie. Un depresso viene evitato da tutti è noioso pesante antipatico. Allontanato dal giro degli amici.

Leggendo i vostri commenti mi accorgo della totale assenza dell’umanità, nel senso specifico del termine.
Non voglio credere che siamo una moltitudine arida e individualista.
La depressione è terribile e devastante ma non tutti ci voltano le spalle.

ma nessuno di loro sa che io, giornalmente, da ormai più di tre anni prendo antidepressivi, pillole per dormire e ansiolitici. Pensano che io sia felice, che non mi manchi nulla ….. invece!!!!! Ora lo sai anche tu e molte altre persone che però non sanno nemmeno chi io sia. Cerco sempre di sorridere, di farmi vedere contenta, ma dentro non è così. Io non mi suiciderò mai, ho troppa paura della morte, non riuscirei mai a farlo, almeno penso. Ecco ora sai più cose su di me, ma nessuno dei miei cari leggerà mai questo commento e questo è quello che conta per me. Non voglio che quelli ai quali voglio bene soffrano per me.

le varianti che ruotano attorno alle parole “cura” e “attenzione” non sempre approdano tra le persone “giuste”. E per giuste intendo empatiche, capaci, coraggiose nel mostrare il proprio cuore.

E’ sempre più facile immedesimarsi nelle vicissitudini di un personaggio famoso che in quelle di “casa propria”

Ognuno ha la propria tribù di demoni da sfamare, domare,riempire di botte…dir loro state zitti, che volete da me.

Non so, sinceramente non so quanto il nostro non voler svelare all’esterno queste “tribù di demoni” come dice Samantha coincida con l’assenza – di fatto – di un ascolto vivo, caloroso, partecipe.

quel senso di perdizione nel buio, senso di inadeguatezza e apatia che la depressione infligge trova principalmente sempre e solo noi come “primo alleato”. Ho scritto “alleato” con intento paradossale.

Mi viene in mente la frase di Pavese:
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi”

I mostri dentro. Ormai so che solo chi li ha capisce davvero.

la sensibilità è un giano bifronte, come l’allegria.. succede che dopo una lunga estenuante risata si concluda con un pianto dirotto. Succede, esiste. E’ un fatto. Come è un fatto una diagnosi di morbo di Parkinson e di Alzheimer…sono forse migliori di un cancro???

Quando cose del genere succedono, tutti sono pronti a dire “ma come, non se n’erano accorti i suoi familiari, i suoi amici?”. La verità è che è difficile, davvero difficile che qualcuno si renda conto di quello che si agita in un’altra persona.

La depressione è davvero una malattia? O non è forse, almeno in certi casi, una visione del mondo, dovuta proprio a una certa particolare sensibilità? In fondo per poter sorridere di tutto bisogna desacralizzarlo, cioè renderlo meno importante (perdona il linguaggio alla buona), e quando rendi tutto meno importante, cosa ti resta di solido a cui aggrapparti?

come risolvi? Anestetizzi la sensibilità? Cioè salvi una persona da sè stessa ottenendo però come risultato una persona diversa? Ma è poi possibile cambiare una persona o l’unica cosa che si può fare è tenere in qualche modo a bada i suoi fantasmi, perciò non guarendolo bensì tenendolo in una specie di limbo da cui basta comunque spostarsi di un passo per ritornare al punto di partenza (Un po’ come succede con le varie dipendenze)? Comunque le mie sono riflessioni con poche certezze…

Un depresso conclamato pian piano inizia a non aver voglia di curare il corpo e l’aspetto, ha fastidio, fino a detestare il contatto con l’acqua, il sonno è agitato o inizia l’insonnia, la sera è già un casino di angoscia perché arriva la notte, ma l’alba è atroce significa riprendere il contatto con una vita che non ha più alcun interesse..

Cosa succede a queste persone? siamo fatti di chimica e qui c’è qualche intoppo, bisogna ripristinare i collegamenti affinché si producano i fenomeni chimici che essendosi interrotti hanno provocato il danno. Prima si interviene e più certa è la ripresa, nel senso che non si sono danneggiati seriamente i centri nervosi del cervello. La serotonina è fondamentale,ma non è l’unica a mancare

i farmaci guariscono davvero e del tutto la depressione o una volta “rotto il vaso” questo rimarrà sempre incrinato e perciò più sensibile agli urti, e per ovviare a questa sensibilità si dovrà ricorrere continuamente ai farmaci (ed ecco creata una dipendenza)?

O forse, azzardo, bisognerebbe distinguere fra depressione dovuta solo a cause “chimiche”, curabile (o che almeno si può tenere sotto controllo) coi farmaci, e tutte le altre. Ma forse il confine non è così netto…

ecco, certe fragilità, certe debolezze, sono dietro l’angolo, ci colpiscono, ci penetrano, ci attanagliano, e non sono visibili… dietro a certi atteggiamenti e apparenze si nascondo vulnerabilità insospettabili, sensibilità labili, a volte speciali, altre sublimi e geniali,

Solo che la gente non si rende conto che gli psicofarmaci sono dei palliativi e non la cura: forniscono il neurotrasmettitore ma non risistemano le sinapsi sbagliate. Se uno è fortunato magari le sinapsi tornano a posto da sole, ma io ci credo poco e -nonostante io sia una razionalista cerebroide asimbolista- sono fermamente convinta che la psicoterapia sia l’univa vera via verso la guarigione, certo magari supportatata dai farmaci psicotropi ma da soli quelli non bastano; e che la cura della depressione, così come di ogni altra malattia psichichica, sia molto più complicata di quello che sembra ed anzi a volte non esiste. Il nemico non è una cellula matta, non è un vaso occluso: è la tua mente.

La propria mente va accolta, apprezzata e amata valorizzandola anche nei difetti, chi non sa amare se stesso non riesce ad amare gran che fuori. La psicoterapia nella depressione deve essere accompagnata dai farmaci giusti, e si può arrivare anche a fare senza medicine. La vedo come una malattia dell’anima e le ferite dell’anima sono quelle più difficili da vedere e da curare.

E’ ovvio che hanno a che fare con la soggettività, ma dobbiamo renderci conto che anche la soggettività può ammalarsi, per quanto non sia possibile (e neanche augurabile) stabilire uno stato di normalità valido per tutti.
C’è una enorme ignoranza sulle malattie mentali, e anche una buona dose di menefreghismo da parte dello stato. E’ giusto dover pagare così tanto uno psichiatra/psicanalista?

Chi ha attraversato quello stato di abbandono totale e di ripudio verso se stessi ha una cicatrice indelebile dentro che ogni tanto torna come una mandala, una nenia, una passacaglia… si trasforma, gli elementi intorno cambiano…ma quel ricordo resta lì.. cresci e vai avanti nella quotidianità, ti realizzi in tante cose eppure quella ferita resta; a ricordarti che ce l ‘ hai fatta ma che resti vulnerabile. Un essere irripetibile e stupendo nella sua unicità , nelle sue fragilità, nelle sue quotidianità e nella sua intimità.

Ecco, se siete arrivati a leggere sino a qui siete degli eroi. Io non ho conclusioni. Non ho verità svelate. Ho solo dubbi. Ho un po’ di esperienza personale in merito. Quel che credo io, per quel che vale, è che i farmaci siano importanti per non affogare, e che abbiano un ruolo preciso. Ma da soli non sono la soluzione. E’ necessario guardarsi dentro. E’ necessario farsi prendere per mano da qualcuno pratico. E questo qualcuno pratico deve essere quello giusto per noi. Ecco, se posso permettermi un suggerimento, credo sia importante essere estremamente esigenti verso il terapista. Deve essere quello giusto per noi. E un altro suggerimento. Se avete un amico depresso, o semplicemente giù di morale, non ditegli “pensa a chi sta peggio”. Non serve proprio a niente. Perché come dicevo altrove, se servisse, noi tutti, TUTTI, dovremmo essere consapevoli che quando diciamo “ci vediamo stasera” vuol dire che ci vedremo stasera, a meno che non ci caschi un cornicione addosso. Mentre in una parte importante di mondo, “ci vediamo stasera” è una speranza, che potrebbe CONCRETAMENTE non avverarsi. E allora, solo pensando a questo una volta ogni sei ore, dovremmo tutti fare capriole dalla mattina alla sera. E invece no. Per cui “pensa a chi sta peggio” è (scusate il francese) una grandissima cazzata. E se vi andrà di dire la vostra, sarà per me un grandissimo piacere ascoltare tutti voi.

Perché

snoopy-writerLeggevo oggi il blog di Vetrocolato, che seguo sempre con grande piacere, e ho letto questo post, “Il compendio di Pasqua”, dove c’è quello che tecnicamente verrebbe definito un “flusso di coscienza”, vale a dire un flusso di pensieri molto intenso ed emotivamente molto coinvolgente, che parla di tristezza e di felicità, di quel mix di sentimenti contrastanti che capitano a coloro che hanno un’interiorità complessa, quelli di cui ho parlato qui (e realizzo solo ora che sono passati mesi e mesi, guardando la data del post). Ma non è questo l’oggetto del contendere, ma piuttosto la chiusa, del post di Vetrocolato, che riporto qui per mia comodità.

Ed anche questa è una cosa che mi chiedo spesso, perché scrivete nei vostri blog? A qualcuno l’ho già chiesto, qualche risposta è stata simile alle mie, altre cose, invece, credo ancora di non averle comprese, ma ancora mi chiedo, perché avete deciso di lasciare le vostre cose qua dentro. Cosa vi rende, a livello personale, il blog. Se avete voglia o possibilità di dirlo, mi farebbe piacere saperlo. Per quanto mi riguarda, il blog non è fine a se stesso, se non ci sono scambi e opinioni, rimane solo un diario, e quelli li vendono in tutte le cartolerie.

Ecco, cosa mi rende, a livello personale, questo blog? Perché ci scrivo dentro? La voglio prendere alla lontana.

Come dico spesso, ed è scritto anche nella copertina del libro, “Niente è per caso” per me non significa un cieco e onnipotente fato che tutto dispone e tutto decide, lasciando inerte e inefficace il libero arbitrio del singolo. Credo piuttosto che significhi che ognuno di noi ha un suo percorso interiore; credo anche che attorno a noi accadano moltissime cose; credo, infine, che noi ci accorgiamo di una specifica cosa che ci accade attorno solo se siamo al punto giusto del nostro percorso, se siamo “pronti” per vederla. E siccome ce ne accorgiamo con un certo tempismo, pensiamo al caso. E invece io dico che non è per caso. 🙂

Ecco, il mio percorso ad un certo punto mi ha portato a scoprire la scrittura. Ho ringraziato molte volte chi me l’ha fatta scoprire, e la ringrazio ancora oggi. Ho scoperto la scrittura come fonte di espressione, come mezzo per dare corpo alla mia interiorità, alla mia necessità di espressione. E la mia scrittura non è una scrittura completamente “libera”, non fluisce con naturalezza come accade a parecchi che conosco, per lo meno non nell’ambito della narrativa. Ho un sacco di problemi con i plot, con la drammaturgia dei racconti. Faccio una fatica enorme a trovare le trame. Una volta trovata una trama di massima, ecco lì inizio a muovermi bene, a trovarmi a mio agio. Perché l’accento passa dalla drammaturgia all’emozione. E a me piace scrivere di emozioni. E scrivere di emozioni significa inevitabilmente scrivere delle proprie emozioni, oltre che di quelle altrui.

E allora, cosa mi rende il blog? Innanzitutto è un modo per “buttar fuori”, quando il livello di guardia sta per essere raggiunto, o semplicemente è abbastanza alto. Se il livello di guardia si supera, neanche la scrittura serve. Ma questo è un altro tema. Quindi un primo ritorno è nel sollievo che viene dopo aver tirato fuori cose. Ma, come dice bene Vetrocolato, questo non sarebbe nulla senza il confronto. Più di qualche volta ho letto commenti che hanno dato inizio a scambi via email, belli e intensi. Talvolta ci sono commenti che toccano le corde più profonde della mia interiorità. Talvolta ci sono commenti che mi portano fuori dal tempo e fuori dallo spazio. L’interazione con persone dall’interiorità complessa. Questo mi rende, e per questo scrivo, qui e altrove.

Nustamobbene

La primavera si sta stabilizzando, e l’ondata, o meglio lo tsunami che mi ha travolto sta ritirandosi. Come tutti gli tsunami lascia dietro di sé una scia di macerie e devastazioni, ma ci sono già molte squadre di carpentieri intente a ricostruire i villaggi devastati nei pressi della spiaggia. Forse ce la faccio, a uscirne senza aiutini. Intanto mi è tornata la voglia di scrivere, che non è poco.

E ricomincio con un post su un’espressione che uso ed abuso. Ma stavolta non l’ho detto io, bensì l’editor che è venuto a trovarci a scuola. Sì, la scuola Omero, quella di cui ho parlato in questo post. Il secondo livello, che sto frequentando ora, è suddiviso in due parti, e alla fine di ciascuna è previsto l’intervento di un editor al quale ciascuno degli allievi legge un proprio lavoro, per ottenere un giudizio di merito da qualcuno “pratico” di scrittura ed editoria, uno “del mestiere”.

Ebbene l’editor era Andrea Carraro, che insomma non è proprio uno che lavora in una casa editrice… è uno che di libri ne ha scritti tanti, uno tra tutti “Il Branco”,  il famoso libro che tratta di uno stupro narrato usando il punto di vista degli stupratori. Uno scrittore vero, insomma. Bravo, e tosto. E anche simpatico, ho scoperto. Le sessioni con lui mi hanno insegnato che ci sono tanti tipi di lettori. E che non è evidente che chi scrive sia in grado di immaginarli e rappresentarli tutti. E anche che se si legge qualcosa di qualcuno che non si conosce non è evidente che si riesca a capire cosa aveva in mente l’autore (che se ci si pensa è esattamente la norma, perché io mica lo conoscevo, Stephen King, quando ho preso in mano “L’incendiaria”, non sapevo, e non so tutt’ora, come sia di persona, ma soprattutto non avevo idea di come scrivesse, di che tipo di cose parlasse, e come ne parlasse).

Lo scopo dell’autore è sempre lo stesso: prendere per mano il lettore e portarlo nel suo mondo. Incantarlo. Trascinarlo per le vie tortuose immaginate. Ecco, l’altra sera ho scoperto che non è affatto scontato immaginare cosa pensa chi leggerà. E di questo ringrazio tantissimo Andrea.

Ma il titolo del post viene da altro, perché Andrea è una persona simpatica e di spirito, e quindi alla fine delle letture, e dei giudizi sui lavori, abbiamo fatto un po’ di domande, e un po’ di chiacchiere, e nell’ambito delle chiacchiere è uscito fuori il tormentone del “nustamobbene”, che io amo tanto, in quanto fan di Johnny Palomba. E lì Andrea mi ha spiazzato, dicendo: “D’altra parte, se hai tutta questa interiorità che chiede di uscire, e se tu hai l’esigenza spasmodica di riportarla su carta, per sentirti meglio, PEFFORZA CHE NUSTAIBBENE!!!!”. La risata è stata corale, ed è stato un momento davvero divertente.

Insomma, bisogna che ce ne facciamo una ragione. Se scriviamo, non importa se su un diario, su un blog, o su un pezzo di carta dove si incarta la pizza, se scriviamo un po’ picchiatelli alla fine siamo per forza.

qualcuno-volo-sul-nido-del-cuculo

La perfezione

Ho ricevuto un commento al post precedente, quello sulla voragine, nel quale mi si diceva di essere perfetto, o meglio “imperfettamente perfetto”, per il fatto di mostrare, denudare, un aspetto di me non graffiante, non allegro, non mondano. E che questo mi rende completo. La mia opinione è che la perfezione non sia di questo mondo. O meglio, se ci riferiamo al microcosmo, e se penso alla meccanica quantistica, ai fenomeni di entanglement ad esempio, ecco allora posso pensare che la perfezione esista davvero. Ma poi, quando tentiamo di riportare questo microcosmo perfetto nel nostro macrocosmo, ci troviamo di fronte al paradosso del gatto di Schroedinger, che filosoficamente per me rappresenta proprio l’impossibilità di mischiare micro e macro. E quindi, traslando, l’impossibilità di avere la perfezione.

Perfetto è il simbolo del Tao, dove bianco e nero sono ugualmente distribuiti, e dove al centro della massima intensità del nero c’è un puntino bianco e viceversa. Un simbolo statico che si anima dinamicamente non appena attribuiamo un significato a quel puntino, non appena pensiamo al Tao in una forma di evoluzione temporale, non appena ci rendiamo conto che tutto è in eterno divenire, in costante cambiamento, e che quando una situazione qualunque raggiunge il suo punto apicale, in nuce già reca in sé il proprio opposto, che si svilupperà e crescerà sino a raggiungere il suo apice e a quel punto recherà nuovamente in sé il proprio opposto. E’ una modellazione perfetta, questa, e come tale risulta non totalmente e non completamente applicabile, proprio in forza del fatto, a mio parere, che la perfezione non è di questo mondo. E quindi, ancorché abbiamo dei cicli riconoscibili (le stagioni, esempio tra tutti), all’interno di questi cicli si verificano infinite variazioni che li rendono tutti unici e differenti uno dall’altro.

Ed è per questo che non mi sento perfetto, per il solo fatto di mostrare i miei neri insieme con i miei bianchi. E non mi sento neanche completo, per dirla in linea con l’interpretazione data in premessa. Credo che un blog sia uno strumento, che ciascun blogger usa come ritiene opportuno. Nel mio specifico caso il blog rappresenta esattamente quanto indicato nel titolo. Un serbatoio di pensieri occasionali. Non c’è regolarità alcuna nei miei post, non c’è un filo logico, non c’è continuità. Quando ho un pensiero di qualche tipo, lo affido al blog, come un naufrago su un’isola affida al mare i propri scritti chiusi in bottiglia. E non è casuale che mi piaccia tanto contemplare il mare, e che ne parli spesso. Il blog mostra una parte di me.

Spesso, tra il serio e il faceto, dico di me che “sono un ragazzo semplice”. Apparentemente è così, e per certi versi non è neanche tutta apparenza. Ci si interfaccia con me in modo semplice, chiaro. Non è difficile. Ma se si vuole scavare nel profondo, allora bisogna penetrare strati successivi, come quelli di una cipolla. E scava scava, si arriva ad un nucleo inaccessibile, dove solo io posso entrare. E dentro questo nucleo, nascosto, ce n’è un altro, che a volte è inaccessibile financo a me. E’ da lì che arriva l’energia che fa aprire le voragini, è da lì che arriva l’energia che mi costringe nel buco. Ma è da lì che arriva anche l’energia che mi fa contemplare la bellezza, che mi fa apprezzare un concetto espresso tra le righe, che anima la scrittura di cose che mi piacciono e che qualcuno trova interessanti. E come io leggo tra le righe altrui, ci sono persone che riescono a leggere tra le mie. A volte, in post “anonimi”, nel senso non specificamente orientati a descrivere me stesso, chi mi conosce bene ha saputo riconoscere un bisogno inespresso, disagio o gioia che fosse. Questo stesso post rappresenta una chiave di lettura straordinaria, per un numero limitato di persone, che sono quelli che con pazienza sono riusciti a penetrare strato dopo strato per arrivare sino al nucleo. Per gli altri resterà un esercizio di scrittura. O al massimo un tentativo di descrizione interiore.

Come ha detto intesomale, “la perfezione puzza di museo delle cere”.