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Ai tempi miei era diverso

asinoNon mi piace, questo titolo. Non perché non pensi quel che c’è scritto, ma non mi piace doverlo dire. D’altra parte tempo fa mi ero imbattuto, non ricordo neanche su quale blog era citato sul blog di verba sequentur (grazie verba per il remind, questo è un update successivo, lo dico sempre che ciònacertaetà), in un articolo del Messaggero, che si può trovare qui, dove Tullio De Mauro, eminente accademico della Crusca, denuncia una situazione drammatica che affligge questo povero Paese.

E stamane ho citato questo articolo commentando un post che poi ne ha generato un altro, che mi ha fatto riflettere sul perché si sia arrivati a questo.  Qui di seguito uno stralcio significativo tratto dall’articolo.

Un 5% della popolazione adulta in età di lavoro – quindi non vecchietti e vecchiette, ma persone tra i 14 e i 65 anni – non è in grado di accedere neppure alla lettura dei questionari perché gli manca la capacità di verificare il valore delle lettere che ha sotto il naso. Poi c’è un altro 38% che identifica il valore delle lettere ma non legge. E già siamo oltre il 40%. Si aggiunge ancora un altro 33% che invece legge il questionario al primo livello; e al secondo livello, dove le frasi si complicano un pò, si perde e si smarrisce: è la fascia definita pudicamente ”a rischio di analfabetismo”. Si tratta di persone che non riescono a prendere un giornale o a leggere un avviso al pubblico – anche se è scritto bene, cosa tutta da vedere e verificare. E così siamo ai tre quarti della popolazione […] Resta un quarto neppure della popolazione su cui la seconda delle due indagini infierisce, introducendo domande più complesse, di problem solving, cioè di capacità di utilizzazione delle capacità alfanumeriche dinanzi a problemi inediti. Così facendo, si arriva alla conclusione che solo il 20% della popolazione adulta italiana è in grado di orientarsi nella società contemporanea: nella vita della società contemporanea, non nei suoi problemi, beninteso.

La riflessione sul perché di questa situazione mi ha portato a darmi la risposta che costituisce il titolo del post, confrontando il lavoro che facevo io all’università con quello che viene fatto dalla generazione attuale degli universitari.

Nel breve volgere di qualche lustro le cose sono drammaticamente cambiate. Io ho fatto Ingegneria, e, al netto dello sbarramento costituito dal biennio, per cui ricordo distintamente che i circa 3.000 studenti del primo anno si erano ridotti a 1.500 il secondo anno e a poco più di 500 il terzo anno, quel che distingue profondamente la metodica di studio è il fatto che gli esami semestrali non esistevano. O meglio, ce n’era uno, “Metodi di osservazione e misura”, che però era complicato quasi quanto uno annuale, e quindi nessuno faceva. Le lezioni si svolgevano da novembre a fine maggio, e avevamo (dopo maggio) un appello al mese per ciascun esame. Alcuni consentivano il cosiddetto “preappello”, vale a dire sostenere l’esame all’appello di maggio, con verbalizzazione successiva. In questo modo ciascuno era arbitro del proprio destino. Si decideva quando fare gli esami, come e quanto studiare, e si cresceva nella responsabilizzazione. C’era chi era più metodico e preferiva non seguire le lezioni, studiando a casa e facendo un esame ogni due mesi, c’era chi come me preferiva seguire e dare esami a raffica nella sessione estiva. Ma ciascuno sceglieva e (possibilmente) imparava dai propri errori.

Oggi abbiamo un’università dove i corsi sono semestrali, gli appelli trimestrali, la maggioranza degli esami sono scritti, la maggioranza degli esami comprendono compiti di esonero durante l’anno che riducono la sessione di esame anche del 70%. In questo modo si deresponsabilizza lo studente, e lo si “coccola” come al liceo, quando ci si preparava l’interrogazione e poi via tutti. Non stupisce quindi che anche un curriculum universitario non basti a fare di una persona un cittadino responsabile, e soprattutto un cittadino in grado di districarsi nelle mille pieghe delle complicazioni della vita quotidiana di oggi.

Io ricordo di aver studiato tante cose delle quali non ho più memoria né manualità. Sicuramente non sono in grado di risolvere un’equazione differenziale, ricordo a malapena il concetto di derivata parziale, rammento a cosa serve una trasformata di Fourier o di Laplace ma non ricordo minimamente come calcolarla. Però (e parlo per esperienza vissuta, per aver aiutato un ragazzo a fare un esame di analisi matematica) sono in grado con relativamente poco sforzo di riprendere quanto avevo assimilato in tempi ragionevolmente brevi, a testimonianza di una buona elasticità ma anche del fatto che quanto studiato era stato studiato in profondità, assimilandolo completamente. Ma soprattutto, ciò che mi porto dietro dagli studi universitari è il metodo. La capacità di segmentare un problema in tanti sottoproblemi uno legato all’altro. In una parola, l’approccio al problem solving. E l’altra cosa che non mi ha abbandonato è la curiosità, la voglia di apprendere e di imparare cose nuove. Quest’ultimo aspetto è forse più personale, ma mi piace pensare che il modo con il quale ho studiato contribuisca.

E oggi, specialmente nell’ultimo decennio, abbiamo assistito a delle trasformazioni profonde, che comportano la necessità di aggiornarsi, di informarsi, di studiare, intendendo con questo il reperimento di informazioni approfondite su un tema e la loro assimilazione. Tanto per dirne una tra mille, tutto il tema dell’e-commerce. Come comprare online, come selezionare i siti, come riconoscere un tentativo di phishing della carta di credito, e via discorrendo. Ora in questo specifico ambito io sono senz’altro avvantaggiato dal fatto di lavorare nel ramo, visto che mi occupo di informatica, ma il concetto è il medesimo applicato a qualunque cosa, ad esempio le modalità di votazione che cambiano per ogni elezione, camera, senato, regione, provincia, comune.

E allora, è ben vero che oramai la percentuale di diplomati e laureati è elevatissima, ma se al liceo (e questo era già vero ai miei tempi) abbiamo un lassismo tale per cui il diploma non è garanzia di acquisizione di strumenti atti a lavorare o comunque a essere un cittadino responsabile, oggi questo fenomeno si è spostato anche al curriculum universitario, portando alle conseguenze che illustra De Mauro.

Tra l’altro, il fenomeno Grillo ha portato alla luce, rendendolo evidente, un fatto drammatico. La rete costituisce un mezzo d’informazione per pochissima gente, così come i giornali cartacei. Il mezzo di informazione per eccellenza resta la televisione, e alla luce di questo non stupisce il fenomeno dell’analfabetismo. Per cui, chi è stato in grado di usare il mezzo televisivo al meglio, facendo parlare di sé e potendo beneficiare di minuti interi di monologhi senza replica, mentre magari altri si accapigliavano interrompendosi di continuo, chi ha avuto questo ingegno ha portato a  casa un risultato elettorale insperato e forse anche inatteso. Mi riferisco a Grillo ovviamente. Dico questo perché se effettivamente fosse la rete il mezzo di informazione di chi lo ha votato, il sito che ospita il blog oggi non andrebbe in crisi con la facilità che ho potuto rilevare negli ultimi giorni. E quindi, popolo bue, “schiavo” del mezzo TV, e poco in grado di barcamenarsi. Ma sempre in grado di trovare gli escamotage giusti per fregare il prossimo, e lo Stato.

Ed è vero sicuramente che avevamo il pentapartito, come mi è stato fatto notare nel post che dicevo prima, però eravamo assai più a nostro agio nella società.