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Le “recinzioni” di Johnny Palomba – Marcellino pane e vino

La prima recinzione pubblicata 😀

i discutibili

Johnny Palomba è il critico cinematografico senza volto che ha adottato il romanesco come lingua per i suoi scritti e che con le sue ‘recinzioni’ ne dice di cotte e di crude sul cinema e lo spettacolo. E’ nato a Bogotà (Colombia) negli anni ’60.

E’ un personaggio simile a Luther Blissett, anche se su scala nettamente minore. Le sue recinzioni sono state lette da attori come Mastandrea, Favino, Giallini, Germano, tutti romani e tutti dotati di grande senso dell’umorismo.

Le recinzioni di Johnny hanno il titolo, un sottotitolo, e poi il pezzo. Alla fine, di solito una piccola morale, che riguarda un amico, il cuggino, o esperienze personali.

Un aiutino per chi non conosce il romanesco. “Stirà le zampe”, o semplicemente “stirà”, significa morire.

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Romanesco, fagiolini e mia nonna

Qualche giorno fa ho comprato dei fagiolini freschi. Non capitava da una vita, perché i fagiolini surgelati sono assai più comodi, perché non vanno “capati”, come si dice nei soliti bassifondi della solita Capitale. Mi piace usare dei dialettismi, in realtà non conosco il romanesco così bene, quando l’ho imparato i trasteverini veri erano già una razza in via di estinzione, per cui il romanesco vero, quello del Belli per capirsi, già non esisteva più da un pezzo. E però alcune cosettine, alcuni termini qua e là, sono sopravvissuti all’imbarbarimento del dialetto. E quindi, al di là dell’accento e della pronuncia, della quale impartisco ripetizioni a Iaia con scarsa costanza ma con grande determinazione (e debbo dire che Iaia si è rivelata un’allieva straordinaria, e ricambia i miei insegnamenti con delle perle di siculo che, ahimé, non riesco a introiettare e far miei come meriterebbero e come io vorrei), quando capita una parola della tradizione la uso. Capare è una di queste, e significa scegliere o pulire a seconda del contesto. In realtà i significati sono più vicini di quanto non appaia, uno essendo l’estensione dell’altro. Capare la verdura, nel caso di verdura a foglia larga, significa scegliere le foglie buone e scartare quelle cattive. Per estensione quindi si usa per pulire, e in particolare nel caso dei fagiolini si riferisce all’operazione di togliere le due punte. Che è un’operazione di pazienza, lenta e noiosa.
E mentre mi organizzavo, da qualche oscuro meandro della mia memoria si è affacciata l’idea di mettermi in grembo una ciotola, di poggiare i fagiolini sul tavolo, e di mettere un’altra ciotola vuota sul tavolo. E ho iniziato a capare i fagiolini, e dallo stesso meandro mi è venuta l’indicazione di ruotare la mano che tiene il fagiolino e porgere la punta da togliere all’altra, in attesa di troncarla con l’unghia del pollice. E mentre lavoravo, inizialmente incerto, poi più spedito, d’improvviso ho capito che quell’oscuro meandro era lo stesso che conteneva il ricordo di mia nonna paterna.
Mia nonna è stata la protagonista di una vera storia d’amore. Nata poco prima della fine del XIX secolo, in una famiglia di origini modeste, per non dire umili, si era innamorata, ricambiata, di un nobiluomo, mio nonno, fratello minore del futuro conte. Mio nonno, che era evidentemente un temerario, organizzò una fuga d’amore e portò mia nonna in Spagna, dove la sposò. Ebbero tre figli, tutti maschi, il più piccolo era mio papà.
Entrambi i nonni pagarono questa fuga a caro prezzo. Un figlio, il secondogenito, morto in circostanze misteriose a 25 anni. Un altro, il maggiore, deportato a Dachau e sopravvissuto per miracolo, ma con la vita segnata per sempre. Mio nonno stesso, morto di infarto durante la prigionia del figlio. Mia nonna, rimasta sola, fu aiutata dalla famiglia di mio nonno, e per lunghissimo tempo visse a Torino. In vecchiaia si trasferì a Roma per stare più vicina a mio papà. Io ero già grandino, sicuramente al liceo. E venne a vivere in un appartamento abbastanza distante da dove abitavo io, ma tutte le settimane prendeva 3 autobus e veniva a noi a pranzo. E oggi capisco che non riusciva a staccarsi dall’idea di doversi “guadagnare” il pranzo. Non che mia madre le facesse pesare alcunché, da brava teutonica aveva messo il pranzo settimanale nel suo casellario e nel regolamento della casa, come faceva praticamente con tutto. Ricordo che il mercoledì era il giorno della spesa al mercato, il giovedì la pulizia del frigorifero, il venerdì i vetri, e così via, in una teoria di attività cadenzate da una periodicità, che poteva essere quotidiana, settimanale o mensile, ma aveva una ineluttabile precisione. Se non ricordo male il giorno di mia nonna era il martedì. E insomma mia nonna esigeva di fare qualcosa, di rendersi utile, con la scusa di non essere capace a stare con le mani in mano. E quindi grattava il parmigiano, puliva le verdure, e capava i fagiolini. Al rientro da scuola (allora non era infrequente uscire alle 12.30, e la scuola era vicina, quindi arrivavo a casa che ancora non era ora di andare a tavola) capitava che la trovassi a pulire i fagiolini, e mi incantavo a guardarla. La rapidità con la quale prendeva un fagiolino dopo l’altro era tale che quasi sembrava non facesse nulla. L’unica testimonianza erano i capi che le finivano in grembo, lei allargava le gambe e sistemava un foglio di giornale sulla gonna, che alla fine veniva arrotolato con dentro gli scarti.
Cornetti. I fagiolini lei li chiamava cornetti.

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