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Andrew Solomon – uno speech come se ne trovano pochi

Ieri ho pubblicato un post, e sguardiepercorsi mi ha segnalato un nome, un libro, e un video di TED. Da quando frequento TED credo che questo sia il più bello speech che abbia mai ascoltato. E per questo, voglio fare una cosa che non ho mai fatto prima. Qui sotto c’è il video, con i sottotitoli in italiano. Ma sotto c’è anche la trascrizione. Perché voglio rileggermela ogni tanto. E perché forse ascoltare questo video, ascoltare l’emozione di Solomon mentre racconta la propria e le altrui esperienze, forse può aiutare chi non sa a capire qualcosa. Ringrazio Chiara (uso il tuo nome solo perché lo hai usato tu 🙂 ) dal profondo del cuore. Niente è per caso, come dico sempre. Ricevere un dono come questo è stato meraviglioso.

Sentivo un funerale nel cervello, e i dolenti avanti e indietro andavano, andavano finché sembrò che il senso fosse frantumato. E quando tutti furono seduti, una funzione, come un tamburo batteva, batteva, finché pensai che la mente si fosse intorpidita. E poi li udii sollevare una cassa e cigolare di traverso all’anima con quegli stessi stivali di piombo, ancora, Poi lo spazio iniziò a rintoccare, come se tutti i cieli fossero una campana e l’esistenza, solo un orecchio, ed io, e il silenzio, una razza estraneanaufragata, solitaria, qui. E poi un’asse nella ragione si spezzò, e caddi giù, e giù, e urtai contro un mondo a ogni tuffo e finii di sapere allora.”

Conosciamo la depressione attraverso delle metafore. Emily Dickinson riusciva ad esprimerla con il linguaggio, Goya con un’immagine. Metà dello scopo dell’arte è descrivere questi stati d’animo emblematici.

Quanto a me, mi sono sempre ritenuto un tipo tosto, uno di quelli in grado di sopravvivere se fossi stato mandato in un campo di concentramento.

Nel 1991 subii diverse perdite. Mia madre morì, la relazione che avevo finì, tornai negli Stati Uniti dopo diversi anni trascorsi all’estero, e ho superato indenne tutte queste esperienze.

Ma nel 1994, tre anni più tardi, mi ritrovai ad aver perso interesse per quasi tutto. Non volevo fare nessuna delle cose che volevo fare prima, e non sapevo perché. Il contrario di depressione non è felicità, ma vitalità, ed era la vitalità che sembrava sfuggirmi in quel momento. Qualsiasi cosa dovessi fare mi sembrava troppo impegnativa. Tornavo a casa e vedevo la luce rossa lampeggiare sulla segreteria telefonica, e invece di non vedere l’ora di sentire i miei amici, pensavo “Quanta gente che devo richiamare.” Quando avrei dovuto decidere di pranzare pensavo: “Dovrei tirar fuori il cibo,metterlo su un piatto, tagliarlo, masticarlo ed ingoiarlo”, e mi sembrava la Via Crucis.

Una delle cose che spesso si dimentica parlando di depressione è che sai che è una cosa ridicola. Sai che è ridicola mentre ci sei dentro. Sai che molte persone riescono ad ascoltare i propri messaggi, pranzare, organizzarsi per fare una doccia ed uscire dalla porta principale e che non è un grande sforzo, eppure ti trovi in questa morsa e non riesci a capire come uscirne. Così mi accorsi che facevo di meno, pensavo di meno e provavo meno sentimenti. Era una sorta di nulla assoluto.

Poi arrivò l’ansia. Se mi avessero detto che avrei dovuto essere depresso per tutto il mese successivo,avrei risposto “Dato che so che a novembre sarà tutto finito, posso farcela.” Ma se mi avessero detto,”Devi soffrire di ansia acuta per tutto il prossimo mese”, piuttosto mi sarei tagliato una mano. Quella sensazione era onnipresente come la sensazione che provi quando camminando scivoli, o inciampi e il terreno si avvicina all’improvviso, ma invece di durare mezzo secondo, come dovrebbe, è durata sei mesi. È come provare paura sempre, senza sapere di cosa hai paura. È stato a quel punto che ho iniziato a pensare che essere vivi faceva troppo male, e che l’unica ragione per non suicidarsi era non ferire altre persone.

Finalmente, un giorno mi svegliai e pensai che forse avevo avuto un ictus, perché ero disteso sul letto, completamente immobile, guardavo il telefono, e pensavo, “Qualcosa non va, dovrei chiedere aiuto” e non riuscivo ad alzare il braccio per prendere il telefono e comporre il numero. Finalmente, dopo aver passato quattro lunghe ore disteso a guardarlo, il telefono suonò e in qualche modo riuscii a rispondere, era mio padre, gli dissi, “Ho problemi seri. Dobbiamo fare qualcosa.”

Il giorno successivo iniziai a prendere farmaci e cominciai la terapia. Iniziai anche a pormi questa terribile domanda: se non sono la persona tosta che sarebbe sopravvissuta ad un campo di concentramento, allora chi sono? E se devo prendere dei farmaci, sono questi farmaci che mi rendono pienamente me stesso, o mi stanno trasformando in qualcun altro? E come mi sento se mi stanno trasformando in qualcun altro?

Mentre mi preparavo allo scontro, avevo due vantaggi. Il primo è che, obiettivamente, sapevo di avere una bella vita, che se solo fossi guarito c’era qualcosa dall’altra parte per cui valeva la pena vivere.L’altro era che stavo seguendo una terapia valida.

Ciononostante, ne uscivo e ci ricadevo, ne uscivo e ci ricadevo, ne uscivo e ci ricadevo, e alla fine capii che avrei dovuto continuare a prendere farmaci e a restare in terapia per sempre. Mi pensai, “È un problema chimico o psicologico? Serve una cura chimica o filosofica?” Non riuscivo a capire quale fosse la risposta. Quindi capii che, in realtà, non abbiamo fatto abbastanza progressi in nessuno dei due campi per trovare una spiegazione esauriente. Sia la cura chimica che quella psicologica hanno un ruolo e capii anche che la depressione era qualcosa che si era radicata in noi così in profondità che non c’era modo di separarla dal nostro carattere e dalla nostra personalità.

Voglio dire che le terapie per la depressione sono pessime. Non sono molto efficaci. Sono estremamente costose. Presentano innumerevoli effetti collaterali. Sono un vero disastro. Tuttavia sono molto grato di vivere in quest’epoca e non 50 anni fa, quando non ci sarebbe stato quasi nulla da fare. Spero che fra 50 anni si senta parlare delle mie terapie e che sconvolga il fatto che qualcuno sia sopravvissuto ad una scienza tanto arretrata.

La depressione è il punto debole dell’amore. Se una persona sposata pensasse, “Se mia moglie muore, ne troverò un’altra” non sarebbe amore così come lo conosciamo. L’amore non esiste senza la previsione della perdita, e lo spettro della disperazione può essere il motore dell’intimità.

Ci sono tre cose che le persone tendono a confondere: depressione, dolore e tristezza. Il dolore è esplicitamente reattivo. Se subisci una perdita e ti senti incredibilmente infelice, e poi, sei mesi più tardi, sei ancora profondamente triste, ma ti senti un po’ meglio, probabilmente è dolore, e probabilmente alla fine se ne andrà da solo in qualche modo. Se subisci una perdita catastrofica, e ti senti a pezzi, e sei mesi più tardi sei a malapena in grado di cavartela, allora è probabile che sia una depressione scatenata dalle circostanze catastrofiche. Il decorso ci dà tante informazioni. Le persone credono che la depressione sia solo tristezza. È tanta, decisamente troppa tristezza, tanto, troppo dolore decisamente non una causa.

Quando ho iniziato a comprendere la depressione, e ad intervistare coloro che ne erano affetti, ho scoperto che alcune persone, che sembravano avere ciò che pareva una depressione relativamente lieve, che ne erano totalmente interdette. C’erano altre persone che sembravano avere, a loro dire, una depressione terribilmente grave, le quali ciononostante vivevano una vita soddisfacente negli intervallifra un episodio depressivo e l’altro. Mi accingevo a scoprire ciò che fa sì che alcuni resistano meglio rispetto ad altri. Quali sono i meccanismi che consentono alle persone di sopravvivere? Così sono uscito ed ho intervistato una ad una persone che soffrivano di depressione.

Una delle prime persone che ho intervistato ha descritto la depressione come un modo più lento di morire e mi ha fatto bene sentirlo dire poiché mi ricordava che quel modo più lento di morire può davvero causare la morte, che questa è una faccenda seria. È la disabilità più diffusa al mondo, e miete vittime ogni giorno.

Una delle persone con cui ho parlato mentre cercavo di capire tutto questo era una cara amica che conoscevo da tanti anni, e che aveva avuto un episodio psicotico durante il primo anno di università,ed era poi precipitata in una terribile depressione. Era affetta da disturbo bipolare o mania depressiva, com’era nota all’epoca. Poi fece notevoli progressi grazie ad anni di terapia a base di litio, alla fine la terapia al litio fu interrotta per vedere come si comportava senza. Ebbe un’altra psicosi e piombò nella peggiore depressione che avessi mai visto durante la quale restava seduta nell’appartamento dei genitori, pressoché catatonica, praticamente immobile, giorno dopo giorno. Diversi anni dopo, quando l’ho intervistata a proposito di quell’esperienza – si chiama Maggie Robbins, è una poetessa ed una psicoterapeuta – quando l’ho intervistata, disse, “Cantavo ‘Where Have All The Flowers Gone’ripetutamente per tenere la mente occupata. Cantavo per rimuovere ciò che la mia mente diceva, e cioè, ‘Non sei niente. Non sei nessuno. Non meriti nemmeno di vivere.’ È stato allora che ho iniziato davvero a pensare di suicidarmi.”

Quando sei depresso, non pensi di essere coperto da un velo grigio e che stai vedendo il mondo attraverso la foschia del cattivo umore. Pensi che il velo sia stato portato via, il velo della felicità, e che ora stai guardando la realtà. È più semplice aiutare gli schizofrenici i quali percepiscono che c’è qualcosa di estraneo dentro di loro che deve essere esorcizzato, ma è difficile con i depressi, perché pensiamo di stare guardando la realtà.

Ma la realtà mente. Questa frase è diventata la mia ossessione: “La realtà mente.” Mentre parlavo con persone depresse, ho scoperto che hanno molte percezioni deliranti. Le persone diranno “nessuno mi vuole bene”. E tu dici “io ti voglio bene, tua moglie ti vuole bene, tua madre ti vuole bene.” Rispondere a questa frase viene abbastanza spontaneo, almeno a molte persone. Ma le persone depresse diranno anche “non importa cosa facciamo, tanto alla fine moriremo tutti.” Oppure diranno “non può esistere una vera unione fra due esseri umani. Ognuno di noi è intrappolato nel proprio corpo.” In questo caso bisogna rispondere “È vero, ma credo che ora dovremmo pensare a cosa mangiare per colazione.”(Risate) La maggior parte del tempo, ciò che esprimono non è un disturbo, ma una visione, si arriva a pensare che la cosa veramente straordinaria sia che molti di noi conoscono queste domande esistenziali ma non ci distraggono più di tanto. C’è stato uno studio che ho particolarmente apprezzato in cui ad un gruppo di persone depresse e ad un gruppo di persone non depresse è stato chiesto di giocare ad un videogioco per un’ora, alla fine dell’ora è stato chiesto loro quanti mostriciattoli pensavano di avere ucciso. Il gruppo di persone depresse è stato preciso rispondendo circa il 10 percento, mentre le persone non depresse credevano di avere ucciso 15 o 20 volte più mostriciattoli – (Risate) – di quelli che avevano eliminato realmente.

Quando ho scelto di scrivere della mia depressione, molti hanno detto che dev’essere davvero difficileuscire allo scoperto, e parlare agli altri della propria condizione. Chiedevano, “Le altre persone ti parlano in modo diverso?” Risposi, “Sì, le altre persone mi parlano in modo diverso. Mi parlano in modo diverso poiché iniziano a parlarmi della loro esperienza, dell’esperienza della loro sorella,dell’esperienza del loro amico. È diverso perché ora so che la depressione è il segreto di famiglia di ognuno di noi.

Qualche anno fa andai ad una conferenza, ed il venerdì della tre giorni di conferenza una delle partecipanti mi prese da parte, e mi disse, “Soffro di depressione e mi imbarazza un po’, ma sto prendendo questo farmaco e volevo chiederle cosa ne pensa” Così feci del mio meglio per darle i consigli di cui aveva bisogno. Lei disse “Sa, mio marito non capirebbe mai. Lui è il tipo di persona per cui tutto questo non ha senso, perciò è una cosa fra me e lei.” Ed io risposi “Va bene.” La domenica della stessa conferenza, suo marito mi prese da parte e disse, “Mia moglie non penserebbe che io sia un brav’uomo se lo sapesse, ma ho avuto a che fare con questa depressione e sto prendendo qualche farmaco, e mi chiedevo lei cosa ne pensa” Nascondevano lo stesso farmaco in due posti diversi nella stessa camera da letto. Io dissi che pensavo che la comunicazione all’interno del matrimonio potrebbe essere la causa di alcuni dei loro problemi. (Risate) Ma sono anche rimasto colpito dalla natura opprimente di quella segretezza reciproca. La depressione è davvero estenuante. Assorbe una gran quantità di tempo ed energia, e non parlarne la rende solamente peggiore.

Poi ho iniziato a pensare a tutto ciò che fanno le persone per sentirsi meglio. All’inizio ero un conservatore riguardo alla medicina. Pensavo esistessero poche terapie efficaci, era chiaro quali fossero, c’erano i farmaci, c’erano certe psicoterapie, c’era la terapia elettroconvulsivante, e tutto il resto non aveva senso. Poi ho fatto una scoperta. Se soffri di cancro al cervello e dici che restare in equilibrio sulla testa ogni mattina per 20 minuti ti fa stare meglio, può anche farti stare meglio, ma hai ancora un cancro al cervello che forse ti porterà alla morte. Ma se dici di soffrire di depressione, e restare in equilibrio sulla testa per 20 minuti al giorno ti fa stare meglio, allora funziona, perché la depressione è un disturbo del modo in cui ti senti, e se ti senti meglio, allora davvero non sei più depresso. Così sono diventato molto più tollerante nei confronti del vasto mondo delle terapie alternative.

Ricevo lettere, centinaia di lettere da persone che mi scrivono per raccontarmi cosa si è rivelato efficace per loro. Oggi qualcuno dietro le quinte mi chiedeva informazioni sulla meditazione. Fra le lettere che ho ricevuto, la mia preferita è stata quella che ho ricevuto da una donna che mi ha scritto dicendo di aver tentato con la terapia, di aver tentato con i farmaci, di aver tentato con tutto, e di aver trovato una soluzione che sperava io rivelassi al mondo, che consisteva nel creare piccole cose a maglia. (Risate) Me ne ha mandate alcune. (Risate) Ma non le sto indossando in questo momento. Le ho anche suggerito di cercare la definizione di disturbo ossessivo-compulsivo nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

Quando ho preso in considerazione le terapie alternative, ho anche acquisito una prospettiva su altre terapie. Mi sono sottoposto ad un esorcismo tribale in Senegal con tantissimo sangue di montone che ora non descriverò nel dettaglio, ma qualche anno più tardi ero in Ruanda a lavorare ad un altro progetto, e mi è capitato di descrivere la mia esperienza a qualcun altro, il quale disse, “Beh, sai,quella è l’Africa occidentale, e questa è l’Africa orientale, i nostri rituali sono molto diversi, ma alcuni dei nostri rituali hanno alcune cose in comune con ciò che stai descrivendo.” Io dissi, “Oh”, lui disse “Sì, ma abbiamo avuto grossi problemi con gli psichiatri occidentali, in particolare quelli che arrivarono subito dopo il genocidio.” Io chiesi, “Che tipo di problemi avete avuto?” Lui rispose “Beh, fecero una cosa bizzarra. Non portarono la gente fuori all’aperto dove cominci a sentirti meglio. Non usarono percussioni o musica per creare emozioni nelle persone. Non coinvolsero l’intera comunità. Non esternavano la depressione come fosse uno spirito invadente. Invece, ciò che fecero fu portare una persona alla volta in stanze piccole e squallide e farle parlare per un’ora delle cose brutte che erano capitate loro.” (Risate) (Applausi) Lui disse “Abbiamo dovuto chiedere loro di lasciare il paese.” (Risate)

Ora, per quanto riguarda le terapie alternative, lasciate che vi parli di Frank Russakoff. Frank Russakoff era affetto forse dalla depressione più grave che abbia mai visto in una persona. Era costantemente depresso. Quando lo incontrai, era arrivato ad un punto in cui si sottoponeva ad elettroshock ogni mese, dopo il quale si sentiva disorientato per una settimana. Poi stava bene per una settimana, e la settimana successiva tutto precipitava. Quindi si sottoponeva ad un’altra seduta di elettroshock.Quando lo incontrai, mi disse, “È insopportabile trascorrere le settimane in questo modo. Non posso continuare così, e mi è venuto in mente come porvi fine se non mi sentirò meglio. “Ma” mi disse, “ho saputo di un protocollo al Mass General riguardante una procedura chiamata cingulotomia, che sarebbe neurochirurgia, e penso che farò un tentativo con quella.” Ricordo che fui davvero sospresodi vedere che qualcuno che chiaramente aveva vissuto tante brutte esperienze con tante terapie diverse avesse ancora sepolto da qualche parte dentro di sè abbastanza ottimismo per fare un altro tentativo. Si sottopose a cingulotomia, e l’intervento ebbe un successo incredibile. Ora è mio amico.Ha una moglie adorabile e due bellissimi bambini. Il Natale dopo l’intervento mi scrisse una lettera, in cui diceva, “Mio padre mi ha fatto due regali quest’anno, il primo è un porta-CD a motore da The Sharper Image, di cui non è che avessi bisogno, ma sapevo che me lo regalava per festeggiare il fatto che vivo per conto mio e che ho un lavoro che adoro. L’altro regalo era una foto di mia nonna morta suicida. Mentre la scartavo, ho iniziato a piangere, mia madre venne da me e mi disse, “Stai piangendo per i parenti che non hai mai conosciuto?” Io risposi, “Lei aveva la mia stessa malattia.” Sto piangendo anche adesso mentre ti scrivo. Non è che mi sento triste, ma l’emozione è troppo forte,forse perché avrei potuto suicidarmi, ma sono andato avanti grazie ai miei genitori e ai medici, e ho fatto l’intervento. Sono vivo, e sono riconoscente. Viviamo nel periodo giusto, anche se non sempre ci sembra che sia così.”

Mi ha colpito il fatto che la depressione viene generalmente percepita come una malattia moderna dell’Occidente, che colpisce il ceto medio, così mi sono informato su come agisce in contesti diversi,ed una delle cose a cui mi sono interessato di più è stata la depressione fra gli indigenti. Così ho provato a raccogliere informazioni su ciò che veniva fatto per i poveri affetti da depressione. Ho scoperto che la maggior parte dei poveri non vengono sottoposti a terapie antidepressive. La depressione è il risultato di una vulnerabilità genetica, che presumibilmente è equamente distribuita fra la popolazione, e di circostanze scatenanti che probabilmente sono molto più gravi per gli indigenti.Eppure, se ti senti sempre una nullità anche se hai una moglie adorabile, arrivi a pensare, “Ma perché mi sento così? Devo essere depresso.” Ti metti in testa di cercare una terapia. Ma se vivi una vita tremenda, e ti senti sempre una nullità, ciò che senti è commisurato alla tua vita, e non ti viene da pensare, “Forse si può curare.” Perciò in questo paese esiste un’epidemia di depressione fra gli indigenti che non viene diagnosticata, né curata, né tantomeno affrontata, ed è una tragedia enorme.Così ho trovato una ricercatrice che stava conducendo un progetto di ricerca nei quartieri poveri fuori Washington D.C., in cui selezionava donne affette da altri problemi di salute e diagnosticava loro una forma di depressione, quindi procedeva con un protocollo di sperimentazione di sei mesi. Una di loro, Lolly, arrivò e quello stesso giorno disse queste parole. Fra l’altro, era una donna con sette figli. Disse,”Avevo un lavoro ma ho dovuto lasciarlo perché non riuscivo a uscire di casa. Non ho nulla da dire ai miei figli. Al mattino, non vedo l’ora che escano, poi mi sdraio sul letto, mi copro fin sopra la testa e le tre, ora in cui tornano a casa, arrivano troppo in fretta”. Disse, “Ho preso tanto Tylenol e qualunque cosa potessi prendere per dormire di più. Mio marito mi ha detto che sono stupida, e che sono brutta.Vorrei poter porre fine a questa sofferenza.”

Venne iscritta nel protocollo sperimentale, e quando la intervistai sei mesi più tardi aveva ottenuto un lavoro da educatrice per la marina militare americana, aveva lasciato il marito che la insultava e mi disse, “I miei figli sono molto più felici adesso.” Disse, “La mia nuova casa ha una stanza per i maschi e una per le femmine, ma di notte vengono tutti nel mio letto, facciamo i compiti e tutto il resto tutti insieme. Uno di loro vuole diventare pastore, un altro vuole fare il pompiere, e una delle femmine dice che diventerà avvocato. Non piangono più come prima, e non litigano più. Tutto ciò di cui ho bisogno adesso sono i miei figli. Le cose cambiano di continuo, come mi vesto, come mi sento, come mi comporto. Posso uscire senza avere più paura, e non credo che quelle brutte sensazioni torneranno,se non fosse stato per la Dr.ssa Miranda sarei ancora a casa con le coperte sopra la testa, ammesso di essere ancora viva. Ho chiesto al Signore di mandarmi un angelo, ed ha ascoltato le mie preghiere.”

Queste esperienze mi hanno davvero scosso, e ho deciso di raccontarle non solo scrivendo un libro su cui stavo lavorando, ma anche in un articolo, così il The New York Times Magazine mi ha incaricato di scrivere riguardo la depressione fra gli indigenti.

Ho raccontato la mia storia, e la mia editrice mi chiamò e mi disse, “Non possiamo pubblicarlo”

Io chiesi “Perché no?”

Lei rispose, “È troppo inverosimile. Queste persone vivono ai margini della società, poi si sottopongono a qualche mese di terapia e sono virtualmente pronte a gestire aziende tipo Morgan Stanley? È troppo inverosimile.” Lei disse, “Non ho mai sentito niente di simile.”

Io risposi, “Il fatto che non ne ha mai sentito parlare significa che sono notizie nuove.” (Risate) (Applausi) “E lei rappresenta una rivista d’informazione.”

Così, dopo vari negoziati, il pezzo è stato accettato. Ma credo che molte cose che mi dissero siano in qualche modo collegate al disgusto che molti provano ancora per l’idea di terapia, l’idea che se andassimo a curare tante persone delle comunità indigenti questa sarebbe una cosa da sfruttatori,poiché cambieremmo queste persone. Esiste un falso imperativo morale che sembra essere tutto intorno a noi, secondo cui la cura della depressione, le medicine e tutto il resto, sono un artificio, una cosa innaturale. Io penso che sia molto fuorviante. Sarebbe naturale che i denti delle persone cadessero, ma nessuno fa campagne contro il dentifricio, almeno non fra i miei conoscenti.

E poi la gente dice, “Ma la depressione non fa parte dell’esperienza delle persone? Non ci evolviamo per essere depressi? Non è parte della nostra personalità?” A loro vorrei rispondere che lo stato d’animo si adatta. La capacità di provare tristezza e paura, gioia e piacere, e tutti gli altri stati d’animo,hanno un grandissimo valore. La depressione grave è qualcosa che si verifica quando questo sistema si rompe. È maladattivo.

Le persone vengono da me e mi dicono, “Io penso che, se resisto anche solo per un altro anno, credo di riuscire a venirne fuori.”

E io rispondo sempre loro, “Potrai anche venirne fuori, ma non avrai più 37 anni. La vita è breve, e stai parlando di rinunciare ad un intero anno. Pensaci bene.”

È una strana carenza della lingua inglese, ed anche di molte altre lingue, il fatto che usiamo questa stessa parola – depressione – per descrivere lo stato d’animo di un bambino se il giorno del suo compleanno piove, e per descrivere come si sente una persona un minuto prima di suicidarsi.

La gente mi dice, “C’è continuità con la normale tristezza?” Io dico, “In un certo senso c’è continuità con la normale tristezza. C’è una certa dose di continuità, ma allo stesso modo in cui c’è continuità fra avere una recinzione metallica fuori casa su cui si forma un po’ di ruggine, che poi devi raschiare via e ridipingere, e ciò che accade se abbandoni la casa per 100 anni e questa si arrugginisce fino a diventare un mucchio di polvere arancione. È quel punto di ruggine arancione, quella polvere arancione, è proprio quello che ci prepariamo ad affrontare.

Ora la gente dice, “Prendi queste pillole della felicità, e ti senti felice?” No. Ma non sono triste di dover pranzare, e non sono triste a causa della mia segreteria telefonica, e non sono triste se faccio una doccia. Invece provo più emozioni, rifletto, perché posso provare tristezza senza nullità. Sono triste per via di delusioni professionali, per via di rapporti logorati, per via del riscaldamento globale. Sono queste le cose che ora mi rendono triste. E mi sono chiesto quale fosse la conclusione. Come fanno queste persone che hanno vite migliori e soffrono di depressione anche più grave, a venirne fuori?Come funziona il meccanismo di ripresa? E la risposta che mi sono dato col tempo è che le persone che negano la propria esperienza, quelle che dicono, “Molto tempo fa ero depresso e non voglio pensarci più, non mi ci soffermerò, mi limiterò ad andare avanti con la mia vita”, ironicamente, sono le persone che sono più sottomesse dalla propria patologia. Chiudere fuori la depressione non fa che rinforzarla. Mentre ti nascondi da lei, quella cresce. E le persone che migliorano sono quelle in grado di sopportare il fatto di esserne affetti. Le persone che riescono a tollerare la depressione sono quelle che riescono a riprendersi.

Così Frank Russakoff mi disse, “Se dovessi rifare tutto, non credo che lo rifarei in questo modo, ma stranamente sono grato per l’esperienza che ho vissuto. Sono felice di essere andato 40 volte in ospedale. Mi ha insegnato così tanto sull’amore, ed il mio rapporto con i miei genitori ed i miei mediciè stato davvero prezioso per me, e lo sarà sempre.”

Maggie Robbins disse, “Ho fatto la volontaria in una clinica di malati di AIDS, non facevo altro che parlare e parlare, e le persone con cui avevo a che fare non erano molto reattive, così pensavo, “Non sono molto amichevoli, non mi aiutano.” Allora ho capito, ho capito che non avrebbero fatto altro che chiacchierare per qualche minuto. Era semplicemente un’occasione in cui non ero affetta da AIDS e non stavo morendo, ma riuscivo a tollerare il fatto che loro ne erano affetti e stavano morendo. I nostri bisogni sono le nostre risorse più importanti. Alla fine ho imparato a dare tutto ciò di cui ho bisogno.”

Valorizzare la depressione di una persona non impedisce una ricaduta, ma può rendere la prospettiva di una ricaduta, e perfino la ricaduta stessa, più semplice da tollerare. Il problema non è tanto trovare un grande significato e decidere che la depressione è stata molto importante. È cercare quel significato e pensare, quando ritorna, “Sarà un inferno, ma imparerò qualcosa.” Durante la mia depressione ho imparato quanto può essere forte un’emozione, quanto può essere reale e ho capito che quell’esperienza mi ha consentito di provare emozioni positive in modo più intenso e concentrato.Il contrario di depressione non è felicità, ma vitalità, ed ora la mia vita è vitale, anche nei giorni in cui sono triste. Ho sentito quel funerale nella mia testa, e mi sono seduto accanto al colosso ai confini del mondo ed ho scoperto qualcosa dentro di me che chiamerei anima e che non avevo mai concepito fino a quel giorno di 20 anni fa, quando l’inferno mi fece visita a sorpresa. Credo che, anche se odiavo essere depresso e odierei essere depresso di nuovo, di aver trovato un modo di amare la mia depressione. La amo perché mi ha costretto a trovare la gioia e ad aggrapparmi ad essa. La amo perché ogni giorno decido, a volte con coraggio, a volte contro il buon senso del momento, di attaccarmi alle ragioni per cui vivere. Questo, secondo me, è un grande privilegio.

Grazie.

Il ponte

Golden Gate Bridge

Questo video di Ted è meraviglioso. Per molti anni il sergente Kevin Briggs, oggi in pensione, ha pattugliato il lato sud del Golden Gate, il famoso ponte di San Francisco, che è utilizzato da moltissime persone per suicidarsi. Kevin racconta dei suoi incontri con gli aspiranti suicidi. Racconta di come il solo fatto di ascoltare cambi la prospettiva. Racconta dei due casi in cui anche l’ascolto non è servito.

E’ il mal di vivere, che porta le persone sul Golden Gate. Kevin dice che quelli che si sono salvati raccontano di essersi pentiti di aver fatto il salto appena “partiti”. Chissà se non sia invece quel che si raccontano, considerando di non essere riusciti nell’intento. Circa 4 secondi di volo, quasi 70 metri, velocità di impatto 130 km/h. L’acqua diventa cemento.

E in quei momenti se si incontra qualcuno, questo dice Kevin, qualcuno che ascolta, magari l’aspirante ci ripensa. Chissà come si arriva alla determinazione di andar giù da un ponte. Chissà come avviene il ripensamento, una volta che si è deciso. Uno dei due che non è riuscito a convincere, a un certo punto gli ha detto “Mi spiace Kevin, ma ora devo andare”. Ed è scivolato. Dice Kevin che il mal di vivere è essere senza speranza, non avere prospettiva, non avere fiducia nel futuro, a fronte di eventi drammatici. Chissà quanta parte ha il non sentirsi amati, nel mal di vivere, chissà quanta ne ha il non amare. Ho letto una citazione tempo fa, di qualcuno (non ricordo chi) che è stato accanto a molte persone poco prima che morissero (non suicide stavolta), e rilevava che nessuno aveva rimpianti di tipo materiale. Tutti rimpiangevano di non aver amato abbastanza. Alla fine, e lo dico consapevole che sembrerò smielato, tutto ruota intorno all’amore. Perché gli aspiranti che hanno parlato con Kevin, che gli hanno detto grazie per averli ascoltati, alla fine hanno ricevuto amore. E questo li ha fatti desistere.

Di morte, di tristezza, di proponimenti

Ho sempre sostenuto che quando muore qualcuno a noi vicino, oltre al dolore della perdita si affaccia la consapevolezza della caducità della vita in generale, e in particolare della nostra. Ci si guarda nello specchio, e si capisce che esiste una data di scadenza. Non si vede, è nascosta. Ma sappiamo che c’è.

E di nuovo, come per il “niente è per caso”, non credo in un fato, o in un destino cinico e baro, che predetermina tutto e decide per noi. Credo nei percorsi tortuosi, credo negli incroci, credo nel fatto che quando si è pronti per affrontare certi incroci, questi si manifestano, altrimenti passano inosservati. Per cui non credo che la data di scadenza sia predeterminata. Ma il solo fatto che esista, ancorché ignota, è qualcosa che non abbiamo sempre presente.

E quando succede un incidente, che provoca una morte improvvisa, inaspettata, lì rimaniamo ancora più annichiliti. Non c’è stato tempo per abituarsi all’idea, non c’è stata una malattia, un travaglio, un’agonia, un qualcosa che ci abbia dato modo di pensare, di ragionare, di prepararci al peggio – che poi non si sia mai pronti, questo è un altro tema, ma credo di aver reso il concetto. Si riceve una botta al plesso solare e si rimane annichiliti. Il senso di perdita è enorme, la mente vola a immagini, attimi, parole, pensieri condivisi con chi è morto. E contemporaneamente si insinua questo senso di temporaneità, di caducità, come dicevo all’inizio. E la pesantezza si impadronisce di noi e non ci abbandona.

Oltretutto il rapporto con la morte è molto peggiorato nell’epoca moderna, specialmente in questo paese dove si fa dell’apparenza un valore, dove apparire giovani è più importante che esserlo, dove il pensiero della malattia e della morte sono scientemente confinati in angolini e cantucci invisibili. Non ci si pensa, si ignora il problema, pensando che ignorandolo lo si riesca ad esorcizzare. E invece è proprio il contrario. Perché pensare al fatto che ce ne andremo, che siamo di passaggio, che questo è un viaggio, ci aiuta a vivere meglio. A mettere in pratica il “sano” carpe diem. Dico sano perché carpe diem non significa “lasciati andare ché finirà tutto”. Carpe diem per me significa avere la capacità di apprezzare le cose belle che ci capitano, di farne tesoro e di cercare di restituire qualcosa del bello che assorbiamo.

C’è un’artista di New Orleans, che dopo aver subito un lutto, ha realizzato un progetto. Ha messo su un vecchio edificio abbandonato una enorme lavagna con scritto a caratteri cubitali “Before I die I will”, “Prima di morire io voglio”. Questo video di TED (con sottotitoli italiani) racconta cosa è successo

E allora ecco, pensiamoci, alla morte. Pensiamo a cosa vogliamo fare prima di morire. Pensiamoci spesso. Perché man mano che riusciremo a realizzare ciò che vogliamo fare, è come se avessimo messo giù tante pietre, dopo averle ben levigate, per costruire un muro. Che resisterà e resterà saldo, anche dopo che saremo andati. Come rimangono saldi in noi i muri costruiti dalle persone che abbiamo conosciuto, con cui abbiamo condiviso un pezzetto di strada, e non ci sono più.

Prima di morire voglio imparare ad ascoltare di più e ad arrabbiarmi di meno.

E voi?

Urca

Stats

Ieri sera leggevo questo post sul blog di elinepal. E mi è venuto lo sghiribizzo di vedere quante visite ho avuto. E, per la serie “niente è per caso”… eh già. I miei 5 lettori avranno già indovinato. Siamo proprio a 10.000. Con le statistiche di uorpress non ho un buon rapporto. Addirittura avevo creato il blog rendendolo “invisibile” ai motori di ricerca, e peraltro non mi è evidente che si possa eliminare questa pregiudiziale, nonostante io abbia comunicato a google la url del sito. Insomma non ero partito con l’idea di fare “ascolto”. Ma con quella di condividere un po’ di piegoline dell’animo (come le definisce un’amica che, bontà sua, mi ha dato un sacco di incoraggiamento sulla scrittura) con chi avesse avuto voglia di leggermi e fosse arrivato qui indirizzato da qualcuno o qualcosa. E’ successo con Iaia, con masticone, e anche con elinepal. Qualcuno che frequentava quei blog si è affacciato. Qualcuno è rimasto, qualcuno è andato. E’ anche accaduto che io sia stato invitato a partecipare ad un blog cooperativo.

E così ho condiviso le mie piegoline; la mia amica non dà una buona accezione a questo termine, lo usa per qualificare quegli esercizi manieristici tutti orientati allo stile, molto concentrati sulla forma e meno sulla sostanza. Sempre la mia amica, cogliendo in pieno il mio intendimento, mi dice che l’italiano a me piace, e mi piace usare uno stile pulito, con le parole appropriate. Ed è vero, l’italiano mi piace assai. E mi piange il cuore vederlo bistrattato continuamente nel parlato e per iscritto. Tempo fa volevo proporre un funerale per il congiuntivo, che è diventato un modo desueto oramai. E mi emoziona trovare qualcuno che usa l’accento acuto quando scrive “perché”, ché ne siamo rimasti pochi (anche il ché è una roba per pochi ;)). Ma non lo faccio per sfoggio, lo faccio perché mi piace. E mi piace perdermi, aprire parentesi, saltare da un argomento all’altro. Partire con la motocicletta e finire col Tao, o con un video di TED. E la mia amica dice che mi vengono le storie. E questo mi rallegra molto, a dirla tutta non avrei mai immaginato che mi sarebbe piaciuto scrivere, in realtà non avrei mai neanche immaginato che mi sarebbe venuta la voglia, di scrivere. La letterata della famiglia è sempre stata mia sorella, che in gioventù aveva scritto anche dei racconti, uno sulle mie figlie, molto bello peraltro. Con lei condivido lo stile scorrevole e leggero (me lo dicono eh, non è che me lo dico da solo). E questa esperienza blogghereccia che è poi sfociata in una pulsione a scrivere storie è molto, molto appagante. Debbo dire che non mi aspettavo che i miei scritti piacessero, ma la risposta di chi li ha letti è stata molto positiva. E allora mi è venuta voglia di farli leggere a molti, a parte gli amici e i parenti, ho anche cercato persone “pratiche” del mestiere (è in quel frattempo, che mi sono imbattuto in Otello Marcacci, del quale parlavo qui, e che mi ha dato, e continua a darmi, delle preziosissime indicazioni e tantissimi suggerimenti). E la cosa che mi ha stupito ed emozionato di più è che un racconto è come un figlio che esce di casa. Perché percorre una strada sua, che non ti appartiene più. Appartiene a chi lo legge, a chi vede cose che tu non solo non hai inserito scientemente, ma non hai neanche lontanamente immaginato. E però, se qualcuno le vede vuol dire che ci sono. E se ci sono, allora io come autore sono solo un tramite. Un tramite tra una storia che chiede di uscire, di essere raccontata, e qualcuno che vuole leggerla. Come dice il Maestro, Stephen King, “It’s the story, not he who tells it”. E solo ora comprendo appieno il significato profondo di questa frase.

E insomma, dopo un po’ di piegoline dell’animo, dopo un po’ di storie, sono qui a vedere questo 10.000 che francamente, onestamente, non mi sarei mai immaginato. Not even in my wildest dreams.

Per cui grazie mille, a tutti quelli a cui piace quello che scrivo, a tutti quelli che sono passati, a tutti quelli che hanno contribuito con un +1 a quel 10.000.

Dalla DEC a TED: evoluzione del concetto di condivisione

Io amo TED. Credo si sia ampiamente capito. L’iniziativa mi piace. E molto. Ho imparato che la condivisione delle esperienze è importante nel 1988. Ero appena entrato in DEC (Digital Equipment Corporation), un’azienda che è passata alla storia per la visione del suo “padre fondatore”, Ken Olsen. Oltre ai prodotti, la visione DEC comprendeva anche la gestione del personale e le modalità di comunicazione. In realtà quest’ultimo tema era strettamente legato all’offerta di prodotti, in quanto DEC ha sempre fatto della rete, e della connettività, la sua bandiera. Molto prima che Internet divenisse quel che è oggi, DEC possedeva la rete privata più grande al mondo, che connetteva tutte le sedi del mondo, dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, per dirla come il Manzoni. Questa connettività era ottimamente sfruttata dal personale, per il tramite di uno strumento molto simile al forum. Parliamo ovviamente dei primordi, i PC come li conosciamo oggi non esistevano ancora, da tre anni era uscito in Italia l’IBM AT, evoluzione del primo XT, che montava per la prima volta un processore 286, il bisnonno del Pentium, per capirci. La sconvolgente quantità di memoria RAM era pari a 512K, sì esatto, ben mezzo MegaByte. Oggi un PC scarso monta 1GB di RAM, cioè mille MegaByte. Il disco, che sembrava enorme, era di 20MB. Sempre il PC scarso di cui si diceva monta oggi almeno 200GB, cioè 20.000 volte di più. Ed erano macchine costose, molto più dei terminali alfanumerici che si usavano in DEC. Però con quei terminali alfanumerici ci scrivevamo delle email, gestivamo forum, parlavamo in diretta. Sul piano professionale, avere un contatto diretto con quelli che producono le cose che tu aiuti a vendere e sulle quali ti si chiede supporto, ha un valore incalcolabile. Rende i tempi di attesa prossimi a zero. Indipendentemente dalla burocrazia, e dall’iter “ufficiale” di apertura chiamata, gestione della stessa, eccetera eccetera, il fatto di sapere che esiste un bug è di per se stesso un valore. Sembrano cose ovvie, oggi. 25 anni fa non era così scontato. Oggi qualunque call center è collegato ad una base dati con tutte le informazioni possibili e immaginabili. 25 anni fa c’erano i manuali di carta. Perché sui computer si memorizzavano solo i dati più importanti, perché costava tantissimo.

E allora, cosa c’entrerà mai TED? TED entra nel discorso perché trovo sia un modo innovativo di condividere. Innovativo relativamente ai tempi che viviamo, dove il nostro problema è diventato filtrare l’informazione, che è tanta, tantissima, troppa. Chiunque sia appena pratico di Internet usa gli RSS aggregator, legge i giornali online, dedica alla lettura in rete un tempo non banale. E sempre più tempo si passa a scremare, a discernere ciò che è importante da ciò che è marginale.

TED questa scrematura la effettua a monte. Non mi è ancora capitato di guardare un video TED che fosse meno che interessante. E non ho mai incontrato un’iniziativa che definirei completamente a 360°. Ho trovato (e in parte postato) video sulla semantica di un termine, sulla fisica quantistica, sui computer, su analisi sociologiche, sui rapporti interpersonali. Una fonte inesauribile di informazione utile. Non utile nel senso utilitaristico del termine (perdonate il giochino di parole) ma utile per aprire la mente, esercizio che di questi tempi è sempre più raro e difficoltoso.

E oggi voglio postare un video emblematico dal punto di vista della condivisione, e ve lo racconto pure, perché purtroppo è senza sottotitoli, perché fa parte della sottocategoria TEDx, che sono eventi patrocinati da TED ma gestiti in modo autonomo al di fuori dell’organizzazione.

E’ la storia di Giles Duley, che sino a 10 anni fa circa era un fotografo di moda di successo. Usando le sue stesse parole, aveva sempre sentito che gli mancava un quid per poter dare un contributo al mondo, e che il suo talento poteva essere chiave nel trovare quel quid. E per l’appunto 10 anni fa circa decide di lasciare il mondo della moda, e di raccontare storie per il tramite delle sue foto. Comincia dando supporto H24 ad un ragazzo autistico, Nick. Questo ragazzo si auto-lesionava, dandosi pugni in faccia, e infliggendosi ferite molto serie. Giles ne aveva parlato più volte con gli assistenti sociali, descrivendo loro le ferite, ottenendo solo risposte incredule. Allora Giles, dopo aver pian piano guadagnato la fiducia di Nick, ottiene da lui il permesso di fotografarlo immediatamente dopo un’azione di autolesionismo particolarmente cruenta. Il risultato netto è che gli assistenti sociali immediatamente hanno prestato molta più attenzione. A quel punto Giles capisce che può rendersi utile al mondo raccontando le storie che riguardano le persone più sfortunate, quelle che vivono tragedie quotidiane che noi non riusciamo neanche ad immaginare. Inizia a viaggiare, e documentare le storie che gli vengono raccontate, cercando di dar voce ai deboli. Finché un giorno del febbraio 2011, in Afghanistan, salta su una mina. E gli vengono amputate entrambe le gambe e il braccio sinistro. E allora lui, per darsi una ragione per continuare a vivere, decide che è lui, la storia da raccontare. Ispirato dalle storie che aveva documentato sino al giorno prima, decide di raccontare la propria storia per mostrare gli orrori della guerra e delle mine antiuomo.

E in perfetta armonia con una filosofia Taoista che vorrei tanto fare mia sino a questo punto, conclude dicendo che se non fosse saltato su una mina non sarebbe mai stato chiamato da TED e non avrebbe mai avuto una platea così numerosa per raccontare le sue storie, compresa quella di Nick, che oggi sta molto meglio e che Giles sente telefonicamente con regolarità. Riuscendo a sublimare il pensiero positivo in azioni concrete che riguardano se stesso, e trasformandosi, lui che già lo aveva fatto una volta, in una persona migliore. E trasformando una disgrazia in un’opportunità, con tanto coraggio e tanta voglia. Di condividere.

Scrivere, il traffico di Roma e due chicche TED

Ho voglia di scrivere. E’ da un po’ di giorni che voglio sedermi davanti al Mac e ticchettare in santa pace, leggevo qualche giorno fa su un blog (ma non ricordo assolutamente quale) che la scrittura a volte diventa una necessità, una valvola di sfogo, un imprescindibile bisogno. Non è così, per me. E però scrivere mi rilassa, il solo fatto di essere qui, di fronte all’editor di wordpress, e vedere i caratteri che pian piano riempiono lo spazio, allenta la morsa dello stress. Ché ringraziando Iddio di stress ce n’è da vendere, da queste parti, ultimamente. Basta uscire di casa, tuffarsi nella bolla di caldo e prendere la macchina, e comincia la giostra.

Il traffico di Roma è un incubo. Non esiste l’uguale, neanche a Napoli. Parlo con cognizione di causa, ho frequentato assiduamente Napoli per lavoro con l’auto, e so di cosa parlo. Il caos napoletano ha una sua logica. Perversa, ma ce l’ha. Come le regole di “Così parlò Bellavista”, quando diceva che col rosso si passa, col giallo fai come ti pare, e col verde devi stare attento perché potrebbe esserci qualcuno che passa col rosso. Queste sono regole, abbastanza singolari, ma regole. A Roma no. A Roma o fai le scorrettezze o le subisci, o sei un velociraptor o sei una preda. Tertium non datur.  E questo è indipendente, curiosamente, dal mezzo. Ho visto cinquantini effettuare prepotenze indicibili a danni di enormi SUV, e ho visto autisti di autobus accanirsi con inermi ciclisti. I velociraptor possono assumere qualsiasi sembianza, è un problema di come uno è fatto dentro. E in questo confronto costante tra vittime e carnefici si realizza la sublimazione del “tutti contro tutti”.

Io sono, manco a dirlo, un velociraptor. Se sono in scooter (la moto solo in pista, da quando ho realizzato che percorrevo il GRA a oltre 200 kmh…) prima di partire non dimentico mai di indossare il mantello di Harry Potter, quello dell’invisibilità. Perché l’automobilista medio non vede le due ruote. Ho realizzato questa drammatica verità un po’ di tempo fa. Non è una questione di cattiveria, né di modalità di guida. Se uno è in macchina, a meno di non avere un allenamento specifico, delle due ruote non si accorge. Punto e basta. Da quando ho fatto questa scoperta evito di usare il clacson. Decimi di secondo persi inutilmente, che invece possono essere dedicati all’effettuazione di una manovra di emergenza, o usati per guardare attorno anche meglio. L’automobilista che mette la freccia a destra e gira a sinistra non mi stupisce più, da allora. Quello che inchioda e accosta a destra neanche. Nella mia testa gira un complicatissimo film che tende a prevedere tutte le possibili mosse di chi mi sta davanti o accanto. E’ l’unico modo per non essere sorpresi. Ed è l’unico modo per essere un velociraptor e rimanere in piedi. Ma come si fa a fare il velociraptor in scooter? Ci si infila in ogni singolo spazio, si affiancano gli automobilisti dalla parte del guidatore (che è l’unica situazione nella quale si può avere la ragionevole certezza di essere stati visti) e li si stringe in modo da farli scansare. Si va spediti sulla linea di mezzeria pronti a scartare, si arriva sempre in prima linea al semaforo, si cerca di anticipare tutto l’anticipabile.

Se sono in macchina ho sempre uno sguardo sugli specchietti. Tutti e tre. Ciascuno dà una sua prospettiva. Fare il velociraptor in auto è più semplice per certi versi, ma spesso l’efficacia è inferiore. Sulla Colombo faccio slalom come se fossi in scooter, se il traffico è fluido. E quindi è necessarissimo guardare, specialmente per evitare gli scooter (se posso cerco di vederli). In macchina la decisione è tutto. Se arrivi deciso ti cedono il passo, se tentenni non passerai mai. Due mani sempre sul volante, alle 9.15, busto eretto, braccia e gambe piegate leggermente, come mi hanno insegnato al corso di guida sicura. E coltello in mezzo ai denti.

Rileggendo quanto ho scritto mi rendo conto che sembra il delirio di un pazzo. E nella rilettura ho limato alcuni passaggi, avevo iniziato elencando le tecniche e i trucchi principali: come “creare” uno spazio in cui infilarsi col motorino, come bypassare file in auto, eccetera. Le ho tolte per snellire, ma la verità è che Roma è una giungla. Io attraverso la città tutti i giorni, abito all’EUR e lavoro vicino alla Stazione. Se guido in questo modo ci metto una mezz’ora circa per tratta. Se guido rilassato ci metto quasi il doppio. In ballo c’è quindi un’ora al giorno, che non mi rassegno a perdere.

E la metafora dei velociraptor è molto pertinente. Come dicevo all’inizio, non c’è via di mezzo, a Roma: o perpetri angherie, o le subisci. Io preferisco perpetrarle, in nome del risparmio di tempo. Però questo clima non aiuta a guidare sereni. Sia i velociraptor sia le prede sono perennemente incazzati neri. Ed è un continuo urlare e gesticolare all’insegna di questo o di quello. Ecco, in questo io ho smesso. Non urlo più, non gesticolo più, non mando la gente a quel paese. Sono concentrato. Una macchina da traffico. Sempre alla ricerca dello spiraglio, del varco, del passaggio per sgusciare via e guadagnare qualche secondo.

In tutto questo quadretto idilliaco, ci sono poi due situazioni in cui l’inferno diventa se possibile ancor peggiore, entrambe legate ad eventi atmosferici. Quando piove, e quando fa caldo. Quando piove, la maggioranza delle persone pensa che se accelera oltre i 40 all’ora la curva successiva sarà costretta a farla in sbandata controllata. Quando fa caldo, la stessa maggioranza pensa che si possa addormentare, o almeno sonnecchiare, mentre si usa l’auto. E questo fa sì che tutte le tecniche da “macchina da traffico” diventano più complesse da utilizzare, la concentrazione deve essere ancora maggiore, e tutto diventa più complicato. E più lungo. E più lento. E quindi già sei stranito che fa caldo, ti tocca anche spendere più energie e perdere ancora altro tempo.

Come rilassarsi quindi? Con un bel video di TED, che domande! Questa volta ne metto addirittura due, sempre affascinanti. Per il primo ci sono disponibili i sottotitoli, anche in italiano. Parla di cose che diamo per scontate ma che forse scontate non sono…

Il secondo (purtroppo sottotitoli solo in inglese) parla di una cosa che mi sta particolarmente a cuore, che è il morbo di Alzheimer. La speaker ha il padre affetto dalla malattia, e lei parla di come si sta preparando nel caso in cui il mostro la dovesse aggredire. Toccante, specie nell’ultima parte.