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La perfezione

Ho ricevuto un commento al post precedente, quello sulla voragine, nel quale mi si diceva di essere perfetto, o meglio “imperfettamente perfetto”, per il fatto di mostrare, denudare, un aspetto di me non graffiante, non allegro, non mondano. E che questo mi rende completo. La mia opinione è che la perfezione non sia di questo mondo. O meglio, se ci riferiamo al microcosmo, e se penso alla meccanica quantistica, ai fenomeni di entanglement ad esempio, ecco allora posso pensare che la perfezione esista davvero. Ma poi, quando tentiamo di riportare questo microcosmo perfetto nel nostro macrocosmo, ci troviamo di fronte al paradosso del gatto di Schroedinger, che filosoficamente per me rappresenta proprio l’impossibilità di mischiare micro e macro. E quindi, traslando, l’impossibilità di avere la perfezione.

Perfetto è il simbolo del Tao, dove bianco e nero sono ugualmente distribuiti, e dove al centro della massima intensità del nero c’è un puntino bianco e viceversa. Un simbolo statico che si anima dinamicamente non appena attribuiamo un significato a quel puntino, non appena pensiamo al Tao in una forma di evoluzione temporale, non appena ci rendiamo conto che tutto è in eterno divenire, in costante cambiamento, e che quando una situazione qualunque raggiunge il suo punto apicale, in nuce già reca in sé il proprio opposto, che si svilupperà e crescerà sino a raggiungere il suo apice e a quel punto recherà nuovamente in sé il proprio opposto. E’ una modellazione perfetta, questa, e come tale risulta non totalmente e non completamente applicabile, proprio in forza del fatto, a mio parere, che la perfezione non è di questo mondo. E quindi, ancorché abbiamo dei cicli riconoscibili (le stagioni, esempio tra tutti), all’interno di questi cicli si verificano infinite variazioni che li rendono tutti unici e differenti uno dall’altro.

Ed è per questo che non mi sento perfetto, per il solo fatto di mostrare i miei neri insieme con i miei bianchi. E non mi sento neanche completo, per dirla in linea con l’interpretazione data in premessa. Credo che un blog sia uno strumento, che ciascun blogger usa come ritiene opportuno. Nel mio specifico caso il blog rappresenta esattamente quanto indicato nel titolo. Un serbatoio di pensieri occasionali. Non c’è regolarità alcuna nei miei post, non c’è un filo logico, non c’è continuità. Quando ho un pensiero di qualche tipo, lo affido al blog, come un naufrago su un’isola affida al mare i propri scritti chiusi in bottiglia. E non è casuale che mi piaccia tanto contemplare il mare, e che ne parli spesso. Il blog mostra una parte di me.

Spesso, tra il serio e il faceto, dico di me che “sono un ragazzo semplice”. Apparentemente è così, e per certi versi non è neanche tutta apparenza. Ci si interfaccia con me in modo semplice, chiaro. Non è difficile. Ma se si vuole scavare nel profondo, allora bisogna penetrare strati successivi, come quelli di una cipolla. E scava scava, si arriva ad un nucleo inaccessibile, dove solo io posso entrare. E dentro questo nucleo, nascosto, ce n’è un altro, che a volte è inaccessibile financo a me. E’ da lì che arriva l’energia che fa aprire le voragini, è da lì che arriva l’energia che mi costringe nel buco. Ma è da lì che arriva anche l’energia che mi fa contemplare la bellezza, che mi fa apprezzare un concetto espresso tra le righe, che anima la scrittura di cose che mi piacciono e che qualcuno trova interessanti. E come io leggo tra le righe altrui, ci sono persone che riescono a leggere tra le mie. A volte, in post “anonimi”, nel senso non specificamente orientati a descrivere me stesso, chi mi conosce bene ha saputo riconoscere un bisogno inespresso, disagio o gioia che fosse. Questo stesso post rappresenta una chiave di lettura straordinaria, per un numero limitato di persone, che sono quelli che con pazienza sono riusciti a penetrare strato dopo strato per arrivare sino al nucleo. Per gli altri resterà un esercizio di scrittura. O al massimo un tentativo di descrizione interiore.

Come ha detto intesomale, “la perfezione puzza di museo delle cere”.

Poi dice che uno

Ve lo ricordate Totò, sì? Il famoso “Poi dice che uno si butta a sinistra”. No no, non è un post politico. Per scrivere un post politico dovrei prendere preventivamente dosi massicce di Peridon per evitare attacchi di vomito, visto quello che sta succedendo in questa campagna elettorale.

E’ un post sulle affinità, e il “poi dice” si riferisce a “poi dice che uno si fissa con la meccanica quantistica”, “poi dice che uno la mena continuamente con l’entanglement”, “poi dice che uno si mette a parlare degli stati coscienziali superiori”.

I fatti. Ieri sera stavo guardando un film. Perché la finale di Sanremo no. Ma proprio no. Guardavo questo film, “W.” di Oliver Stone, veramente appassionante, e alla fine del film decido una prima volta di andare a dormire (in realtà poi mi sono messo a vedere “Il Patriota” e sono andato a dormire alle 2); prima di andare mi affaccio su Facebook, e scorrendo la mia bacheca trovo questo post di elinepal (i nomi sono anneriti, per questioni di privacy; chi conosce elinepal sa come raggiungerla)

Post Eli short 1Guardo il nome, e le prime righe. Mi viene in mente che, uhm, quel viso non mi è nuovo. Mi pare che… ma no, non è possibile. Controllo. Faccio una piccola search sul blog, e rispondo a elinepal

Post Eli 1Più di sei mesi fa avevo scritto di questo signore, Giles Duley, in questo post, raccontando la sua storia, perché mi aveva molto colpito la sua doppia rinascita, la prima quando ha abbandonato la professione di fotografo di moda per diventare un fotografo utile agli altri, la seconda, molto più dolorosa e coraggiosa, dopo la mutilazione, diventando un testimonial vivente contro le mine antiuomo. E oggi, sei mesi dopo, la cara elinepal viene colpita esattamente dalla stessa storia. E non solo, la scrive su Facebook. E non solo, io mi trovo lì proprio nel mentre. Non troppo presto, non troppo tardi, giusto in tempo per leggere e per condividere. Se non sono affinità, se non è entanglment questo, cosa lo è?

E oramai è talmente una “rota” (dipendenza, cfr “Il dialetto dei bassifondi della Capitale”, Wish aka Max, ed. Adelphimicacazzi), che su suggerimento dell’ottimo Ema (che poi Ema quando te lo apri un blog così ti posso linkare?) mi sono comprato “La fisica del diavolo”, che è molto, molto divertente, e spiega in modo chiaro e semplice i principali paradossi con i quali si sono confrontati i fisici. Ovviamente la relatività generale, la relatività ristretta e la meccanica quantistica la fanno da padroni, ma c’è lo spazio anche per un raccontino in introduzione che spiega correttamente cos’è un paradosso e cosa non lo è, che voglio condividere qui, prima di passare al gran finale, neanche a dirlo quantistico, tanto per cambiare ;).

Ci sono tre viaggiatori che per una serie di circostanze si trovano a dover dormire in una stanza di albergo tutti insieme. La stanza costa 30€, per cui ciascuno di loro consegna 10€ alla receptionist. Mentre stanno salendo, la receptionist si ricorda improvvisamente che quella settimana era in vigore una promozione per cui il costo della stanza non era 30€, ma 25€. Mentre si avvia per restituire 5€, pensa che 5 non è divisibile per 3, e quindi decide di restituire ai tre viaggiatori un euro a testa, trattenendone due per sé. Ora, a questo punto abbiamo un problema. Perché ciascun viaggiatore ha pagato 9€, per un totale di 27€, e due euro li ha trattenuti la receptionist. Dov’è finito l’euro mancante?

Mentre ci pensate (Ema non puoi rispondere) vi propino un video di TED. Un po’ di tempo fa avevo parlato del fatto che portando il microcosmo nel macrocosmo si rischia di fare un gran casino, arrivando al gatto di Schroedinger. Aaron O’Connell si è messo in testa che se gli effetti quantistici valgono per i singoli atomi, e per le singole particelle subatomiche che compongono il singolo atomo, allora deve esserci un modo per farli valere anche per un insieme ordinato di atomi. Per vedere realmente, con gli occhi, gli effetti quantistici. Nessuno ha mai visto realmente una particella subatomica, la si può immaginare, si possono guardare le tracce lasciate con esperimenti tipo quello dell’interferenza, ma le dimensioni sono troppo piccole per essere realmente osservate. Ebbene, il buon Aaron dopo anni di studi e tentativi ha costruito un oggetto dove effettivamente c’è un pezzo di materia che si trova in due posti contemporaneamente. La spiegazione è affascinante, e ci sono i sottotitoli in italiano.

Ah, giusto. Dov’è finito l’euro. Quello mancante. Ecco. Questo esempio viene usato da Al-Khalili per mettere in guardia contro i falsi paradossi. Qui non esiste alcun paradosso, in realtà. Noi siamo portati a pensare in termini dei 30€ perché ci è rimasta “appiccicata” questa informazione contenuta nei dati di partenza. E quindi sembra mancare un euro. In realtà la stanza costa 25€, e i tre viaggiatori hanno pagato 27€, due euro in più del dovuto, proprio i due euro che si è intascata la receptionist. Per dire che non c’è nulla di paradossale, è solo una costruzione mentale nostra che ci porta a sommare invece che a sottrarre, per il fatto che il nostro riferimento è rimasto 30 (e ovviamente chi racconta non ha alcun interesse a fare chiarezza). I paradossi, e i finti paradossi, sono un ottimo sistema per aprire la mente, e per stimolare la parte destra del cervello. Quella intuitiva, di cui parlava Aaron. 🙂

Ci siamo

54E anche quest’anno arriva il fatidico 9 febbraio. Atteso da ragazzo e giovane uomo con aspettativa positiva, da quasi quarantenne con angoscia, da quasi cinquantenne con gioia. E quest’anno una novità. Un blog. Perché lo scorso anno questo blog non esisteva ancora. In quasi un anno ho infilato dentro 72 post, compreso questo. E ho scoperto una vena che ignoravo di avere. C’è una persona che devo ringraziare per tutto questo. Una persona che erano anni che mi diceva di aprire il blog. Questa persona è Iaia. E ricordando le sue pubblicazioni che giocano coi numeri, questo lo programmo per la pubblicazione alle 5:40. Dopo aver aperto il blog, per quasi un anno mi ha blastato (quanto mi piace il linguaggio ccccciovane) dicendomi che dovevo scrivere, che dovevo scrivere, che dovevo scrivere. E ancora mi fa un po’ vergogna declinare scrivere alla prima persona singolare. Perché non so. Non mi pare possibile. Mi pare una cosa talmente fuori della grazia di Dio. Ma è così. Faccio molta fatica, a volte. Ma è nel complesso una cosa che mi piace molto, che mi mette in contatto con una parte molto profonda di me. Ed è un contatto bello.

E’ proprio vero che l’enganglement esiste. E ovviamente l’intensità varia. Dipende dalle circostanze, dalle distrazioni che ciascuno ha. Ma è indubbio che con Iaia un legame c’è. E forte. Una sola cosa mi spiace in questo periodo, di non poter essere più vicini. Avevo scritto “ma vedremo di rimediare”. E mi pareva una cazzata, così l’ho cancellato. Non si può rimediare ad una distanza fisica di 1000 e più km. Non quando si hanno delle vite intense. Ma si può essere in contatto con lo strumento che ha sempre contraddistinto il nostro contatto. La rete.

L’anno appena trascorso è stato un anno di passaggio, sembrerebbe. Vedremo per dove. Di cose ne sono successe tante, molte piacevoli, alcune meno. Sono cambiato in molte cose, sono dimagrito, ho iniziato a scrivere, come dicevo sopra, ho iniziato a correre. Spero di riuscire a continuare, spero domattina (sto scrivendo la sera dell’8) di farmi un bel regalo e ricominciare. Mai avrei immaginato di desiderare un’attività sportiva con tanta intensità. Io che sono pigro come un tapiro sonnolento. Nell’ultimo racconto c’è una piccola descrizione delle sensazioni che provo quando corro. E faccio francamente fatica a spiegare. Molti con cui parlo mi dicono “eh lo capisco ti scarichi”. No. Non è questo. O meglio, non è solo questo. Il punto è che le sensazioni che si provano sono simili, molto simili a quelle descritte parlando della motocicletta e della guida in pista. Quella sensazione di tempo rallentato, di concentrazione estrema, di esserci senza esserci, presenza e assenza nello stesso momento. Un caro amico mi dice spesso che viene un momento in cui, durante la nostra personale ricerca alla scoperta della conoscenza di noi stessi, i libri vanno buttati via e si deve lasciare spazio al sé. Ecco, questo io sento correndo. Dopo un po’, e con livelli di intensità non costanti. Ma questa è la sensazione. Che il mio sé si ingrandisca, e che io gli lasci spazio. E non voglio fare sparate alla “sono in contatto con l’universo” ma veramente sento un livello coscienziale superiore che si avvicina. Speriamo bene. Speriamo di poter continuare.

E allora tanti auguri a me. Per un anno sereno. Perché la serenità è tutto. E poi 5+4 fa 9. Che è 3×3, oltre a tante altre cose.

C’è un posto

C’è un posto.
C’è un posto che non so dov’è.
C’è un posto che non so dov’è ma so che c’è.
C’è un posto che non so dov’è ma so che c’è dove ci sono storie.

Ieri sera ho finito di scrivere un racconto. Lo pubblicherò più tardi. E’ un racconto che è nato pensando a kuroko e ai suoi disegni. kuroko mi ha colpito una volta, quando ha disegnato il buco. Lo ha disegnato esattamente come io lo avrei visualizzato se fossi capace di visualizzare chiaramente le immagini e non le parole. E se io avessi, oltre alla capacità di visualizzare nitidamente quella specifica immagine, anche quella di riportarla su carta, se io fossi capace a tenere una matita in mano, io avrei disegnato esattamente quello. Perché è successo? Io avevo la sensazione che kuroko fosse in grado di leggere tra le righe, di “penetrare” i miei scritti con una specie di supervista, e rendere in immagine ciò che io faccio con le parole. La cosa singolare è che si è verificato anche il viceversa. Più di qualche volta guardando i suoi disegni ho pensato a delle cose, ho visto degli elementi, ho fatto delle riflessioni, e ne ho scritto sul suo blog. Riflessioni a cui kuroko non aveva pensato mentre era lì che disegnava. Ma che riconosceva sue. Proprio come io ho riconosciuto mia l’immagine che kuroko ha disegnato.

E siccome mi piacciono le immagini di kuroko, perché le trovo pacificatrici ed inquietanti allo stesso tempo, mi sono messo in testa di scrivere qualcosa che avesse a che fare con queste visioni. E ci siamo scambiati un po’ di email. Abbiamo parlato, abbiamo scambiato. E ho iniziato a scrivere. E poi mi sono “bloccato” ad un certo punto, ho scritto di getto la prima parte, perché era più “mia”, più familiare, un terreno consueto. E poi non riuscivo ad andare avanti. Un po’ perché è un periodo un po’ così. Sta di fatto che scrivevo una riga e la cancellavo, poi dieci e le cancellavo, poi magari riuscivo a mettere giù una frase e salvavo e chiudevo. E ho riparlato con kuroko, avevo delle idee ma erano confuse. E poi evidentemente sono tornato in quel “posto”. Ci sono andato, senza rendermene conto, e lì c’era la storia. C’era la conclusione. E non lo sapevo che sarebbe andata così. Ero davanti al mac ieri sera, e cercavo di buttare giù una frase, quando a un certo punto ho iniziato a ticchettare furiosamente. E scrivevo e non sapevo cosa sarebbe successo dopo. Mentre scrivevo la storia si dipanava. E ho finito il racconto. E kuroko ha detto “in alcuni frasi becchi gli Ombromini, come li vedo io”. Ed è lei che ha tirato fuori l’idea del “posto”. Il posto delle storie, il posto delle visioni, il posto delle idee. Il posto. E basta. E mi piace pensare che in questo posto ci sono tanti posticini. E ciascuno ha il suo. Ma a volte si riesce a “sconfinare”, e andare nel posticino del vicino.

Ieri parlavo di entanglement. Che non saprei neanche come tradurre. E’ una di quelle parole imparate leggendo in inglese. Che le derivi dal contesto nel quale sono state scritte. E capisci il concetto che sottendono. Lo comprendi profondamente al punto che non sai trovare una parola che vada bene. Entanglement è un concetto di aggrovigliamento, di connessione stretta, di relazione strettissima. Empatia? Vogliamo osare? Come fanno due elettroni a essere “empatici”? Eppure lo sono. E questo filmato lo dimostra. Mi scuso, è in inglese, provo ad abbozzare una traduzione sotto.

“Due oggetti, due elettroni creati insieme, sono legati (empatici). Spediamone uno all’altro capo dell’universo. Ora, facciamo qualcosa a uno dei due. L’altro risponderà istantaneamente. Istantaneamente. Quindi, delle due l’una. O l’informazione sta viaggiando a velocità infinita, oppure, nella realtà, loro (i due elettroni) sono ancora connessi. E sono… legati (empatici). E siccome ogni cosa era legata al momento del Big Bang, questo significa che ogni cosa si sta ancora toccando. Lo spazio è solo un costrutto che ci dà l’illusione che esistano oggetti separati… (siamo già abbastanza giù nella tana del coniglio?)”

Ecco. Il posto di cui parlo mi fa tanto pensare all’entanglement. E mi scuso se insisto nell’usare il termine ostrrogoto, ma come detto, con tutto l’amore che ho per l’italiano, non esiste una singola parola che abbia la stessa forza di “entanglement”. Penso all’entanglement quando penso che gli Ombromini sono la stessa cosa, in quel posto, per me e per kuroko. Solo che io li scrivo e lei li disegna. Io li ascolto magari, e lei li vede. O io in quel posto leggo un libro sugli ombromini, mentre kuroko vede un film sugli ombromini. E accanto al posticino degli ombromini c’è il posticino del clown di Iaia. E magari un giorno riesco ad andare anche lì

C’è un posto.
C’è un posto che non so dov’è.
C’è un posto che non so dov’è ma so che c’è.
C’è un posto che non so dov’è ma so che c’è dove ci sono storie.
C’è un posto che non so dov’è ma so che c’è dove ci sono storie e io ci sono stato.

Blog, fai il tuo mestiere

Caro blog, se sei un serbatoio di pensieri occasionali, vuol dire che da serbatoio ti devi comportare. E siccome sono alla ricerca spasmodica di un succedaneo della corsa, ti toccherà sopportare, e accogliere nella tua pancia dei pensieri sconclusionati qualunque.

Stamattina mi è venuta in mente la parola ordalia. Non mi ero mai imbattuto nella parola ordalia prima della lettura di Dune, di Frank Herbert. Dal libro fu tratto anche un film di Lynch, ma come spesso accade la resa cinematografica di un romanzo non è mai completamente all’altezza. E ricordo che incontrai la parola proprio all’inizio del romanzo, quando il giovane Paul Atreides ne subisce una da parte della Reverenda Madre.

– Bene – disse la vecchia, – hai superato la prima prova. E adesso, ecco in che cosa consiste la seconda: se togli la mano dalla scatola, muori. Nient’altro. Tieni la mano nella scatola, e vivi. Toglila, e muori. Paul respirò profondamente per calmare il tremito. – Se urlo, in un attimo la stanza sarà invasa dai servi, e allora voi morirete!
– I servi non passeranno oltre tua madre, che è di guardia fuori da questa portá. Puoi esserne certo. Tua madre ha superato questa prova. Ora è il tuo turno. Devi esserne onorato. Molto raramente sottoponiamo dei ragazzi ad essa.
La curiosità ridusse il terrore di Paul a un livello controllabile. Non poteva negarlo: le parole della vecchia gli erano suonate sincere. Se sua madre era di guardia fuori… se questa era veramente una prova… Qualsiasi cosa fosse, sapeva di esserci dentro fino al collo, intrappolato da quella mano con l’ago, il gom jabbar. Richiamò alla mente la litania contro la paura che sua madre gli aveva insegnato, secondo il rito Bene Gesserit.
Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata, aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso. Là dove andrà la paura non ci sarà più nulla. Soltanto io ci sarò.
Sentì la calma invaderlo nuovamente, ed esclamò: – Sbrigatevi, vecchia.
– Vecchia! ribatté lei. – Hai del coraggio, non si può negare. Bene, vedremo, signor mio. – Si chinò su di lui, sfiorandolo, e abbassò la voce fino a un bisbiglio: – Sentirai dolore alla mano, nella scatola. Un dolore atroce, ma… Ritira la mano e ti toccherò il collo col gom jabbar! La sua morte è rapida come la scure che mozza il capo al condannato. Ritira la mano, e il gom jabbar ti ucciderà. Hai capito?
– Che cosa c’è nella scatola?
– Dolore.

Ecco. Questo è il senso dell’ordalia. Cosa c’è nella scatola? Dolore. Questo rappresenta la parola meglio di ogni spiegazione, meglio di ogni definizione. Una scatola vuota dove devi mettere una mano, e sai che ci sarà dolore. E non puoi sottrarti, altrimenti il gom jabbar penetrerà nella gola e ti ucciderà all’istante. Ordalìa. Ha un suono sinistro. Solo pronunciarla fa paura. Ma come dice il giovane Atreides, la paura va guardata in faccia, bisogna permetterle di attraversarci, per aprire il nostro occhio interiore e vedere da dove è passata. E dove andrà la paura, non ci sarà niente. Soltanto io ci sarò.

E la paura mi ha fatto venire in mente la fisica quantistica (e poi lo dico il collegamento, eh). C’è un filmato stupendo che illustra l’esperimento delle due fessure. Quello che fa capire come la particella possa essere in due posti nello stesso momento. E’ un cartone di pochi minuti

Ecco, il collegamento con la paura è quello finale, perché l’elettrone ha “paura” di essere osservato. E avendo paura, “decide” di fregare l’osservatore. Ma. Ma così si fa male da solo alla fine. Perché scegliendo, perde la seconda possibilità. Perde la possibilità di essere in due posti nello stesso momento. Ma alla fine non è neanche colpa del povero elettrone. E’ colpa dell’osservatore. Che vuol dire tutto questo? Boh.

Ma ho letto un interessante post di un blog che mi ha attirato innanzitutto per il nome. Il blog si chiama “Rem tene, verba sequentur”, che ha risvegliato in me delle reminiscenze antiche, quando facevo le versioni di latino ed ero uno dei pochi a cui il latino piacesse. E tacevo questo fatto, per non essere sbeffeggiato. Ma penetrare la frase latina era quasi come risolvere un’equazione, un procedimento molto molto logico. E la frase che dà il titolo al blog invita a stare sulle cose, perché nel momento in cui si conoscono le cose le parole verranno da sole. Questa frase, attribuita a Catone, rappresenta una rottura rispetto al credo aristotelico secondo cui è necessario sì conoscere, ma è necessario anche sapere come dire ciò che si conosce. In questo specifico, Catone è assai più intrigante, perché mette l’accento sull’esigenza conoscitiva, sull’approfondimento, sulla sostanza. E anche se è vero che la forma è sostanza, è anche vero che la sostanza può diventare forma. E comunque, siccome sto divagando come sempre, vorrei dire che il post cui mi riferisco è questo, e dice che se ti fai scappare una cosa l’hai persa, perché non si torna indietro. Come l’elettrone.

E chi è l’osservatore esterno che si prende la colpa? Difficile da capire, perché restiamo confinati a questo mondo. Mentre l’osservatore che disturba l’elettrone appartiene ad un altro mondo. C’è un osservatore lì fuori? Che forma ha? Siamo come le figure piane di Flatland che non conoscono la terza dimensione? Che non conoscono il volume? Esiste una quarta dimensione? Esiste l’entanglement? Quella teoria secondo la quale siccome all’inizio dei tempi, nel momento del Big Bang, era tutto unito, allora le cose sono effettivamente tutte legate, e la distanza tra particelle è un di cui? E se io prendo due elettroni appartenenti allo stesso atomo, ne porto uno a distanza ragguardevole, e lo stimolo, l’altro risponde. Ecco questo entanglement, ha applicazioni pratiche nel macromondo? Esistono comunicazioni extrasensoriali?

E che ne so? Così risponderebbe Quelo. Sai a che ora me so’ alzato stamattina? Alle 7 meno un quarto, e la bambina mi ha vomitato in macchina.