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Grim reaper

ReaperHo letto due post, ieri, di due blogger che seguo e che penso scrivano meravigliosamente bene, e tutti e due parlavano di morte. Due approcci, due racconti, due punti di vista. Da una parte una collega che improvvisamente se ne va, sola, da single. Se ne accorgono perché non risponde al cellulare. Dall’altra parte una notizia di condanna di un amico, che arriva da un medico, una sentenza senza appello, una scadenza vicina, vicinissima. Il vuoto lasciato dalla collega, una morte avvenuta. La condanna dell’amico, una morte annunciata.

Ma sempre di morte si tratta. Sempre la morte ci troviamo a contemplare. E per non guardarla in faccia guardiamo le immediate vicinanze, la scrivania vuota della collega con le ultime attività lavorative effettuate, il tentativo di reazione dell’amico ed il contrasto con la disperazione della moglie. In matematica esistono gli “intorni”, sono quelle regioni di spazio che sono attorno ad un punto. Ecco, ci focalizziamo sull’intorno del punto, esaminiamo minuziosamente la regione di piano immediatamente adiacente al punto, ma il punto, il centro dell’intorno, la signora con la falce (the Grim Reaper, la Triste Mietitrice) no, quella non la guardiamo.

Sostengo da molto tempo che quando viene meno una persona vicina siamo colpiti. E la vicinanza non è necessariamente detto che corrisponda ad una parentela. Un amico, un collega, ci è vicino per affinità, o per tempo trascorso insieme.

Il motivo per il quale siamo colpiti va al di là del dolore per la perdita, della disperazione per il distacco. Il problema è che siamo costretti a confrontarci con la caducità dell’esistenza. Il problema è che siamo costretti a guardare il punto. E il punto è la nostra stessa morte, il nostro stesso essere di passaggio, non eterni. Viviamo come se fossimo eterni per la maggior parte della nostra giornata. Ho già scritto altrove come, complice una gestione scellerata dei mezzi di comunicazione di massa, siamo progressivamente stati condotti in uno stato di intorpidimento che ci fa pensare che l’eterna giovinezza sia a portata di mano, che potremo restare in questa vita ad libitum, che non ci sono più barriere anagrafiche a impedire alcunché.

E invece no. Invece abbiamo una data di scadenza. Solo che ignoriamo qual è. Ma fintanto che la ignoriamo, pensiamo che non esista. E’ di tutta evidenza che se stessimo tutto il giorno a pensare alla nostra morte non potremmo far nulla. Ma è altrettanto vero che se mai ci pensiamo, mai ci rendiamo conto che è importante tornare alle domande fondamentali, tornare alla ricerca di noi stessi. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. E come sempre, non è importante quale sia la risposta. L’importante è cercarla, la risposta. Perché è il viaggio, e non la meta.

Quando un prete e un ragazzino ti insegnano qualcosa

ADG-funeraleIeri sono stato ad un funerale. E’ morto un collega, con lo scooter, all’ora di pranzo. Su una strada che io ho percorso centinaia di volte, con tutti i mezzi e a tutte le velocità possibili, anche molto, molto oltre le prescrizioni del codice. Una strada dove non riesco a capacitarmi che possa succedere qualcosa, visto che è un gigantesco rettilineo. Forse il vento, che era forte, forse una distrazione, chissà. C’erano tantissimi colleghi, com’è ovvio, e com’è altrettanto ovvio e come sempre accade in questi casi, si parlava dell’accaduto. Due considerazioni, delle tante ascoltate, mi hanno colpito. Una relativa all’età, a 47 anni è “una vita lasciata a metà”. E mi ritrovo molto in questo, perché a 47 anni, con due figli di 14 e 10 anni, di cose da fare, da dire, da insegnare, da sperimentare, ne hai ancora tante. L’altra relativa alla moglie, compagna di vita, che lo saluta la mattina, totalmente inconsapevole del fatto che sarà l’ultimo saluto. E ho pensato al non detto, alle piccole miserie umane quotidiane che ci occupano la mente in modo così intenso, deviando la nostra attenzione dai fondamentali. E alla tortura costituita dal pensiero di tutto quello che avrebbe voluto dire, di tutto quello che avrebbe voluto fare, dei sospesi che rimarranno tali, dei gesti inespressi.

Il prete è una persona intelligente. Due cose mi hanno favorevolmente impressionato. La prima è l’omelia, nella quale non si è lanciato in voli pindarici, ma si è limitato a leggere. Ha letto un passo di una pièce teatrale, “Processo a Gesù”, di Diego Fabbri, che riporto in fondo al post, se qualcuno la vuole leggere. Nel pezzo che ha letto si parla di una persona che racconta il dramma di perdere una persona cara nel fiore degli anni, nel suo caso un figlio, e del processo di identificazione con la figura sacra prima, e di consolazione nella religione poi. Un pezzo sobrio, senza sentimentalismi eccessivi, senza richiami dogmatici. Un pezzo consolatorio. E poi ha letto delle cose molto personali, che riguardavano un pellegrinaggio fatto con loro. Si vedeva che c’era una conoscenza profonda, e si sentiva tutta la sofferenza dell’uomo, costretto a esercitare un ruolo che non avrebbe voluto svolgere, in quel momento. Non mi capita spesso di esprimere giudizi lusinghieri sui preti, ma questo mi è sembrato una gran bella persona.

E per l’appunto, l’altra cosa che mi ha colpito è che alla fine della messa ha riferito che in molti gli hanno chiesto di parlare e di dire delle cose, ma che quel giorno avrebbe lasciato la parola solo (cito testualmente) “a Luca, al grande Luca”, il figlio. 14 anni, come detto. Un bel gesto, di grande rispetto per la famiglia. E Luca è veramente un grande, ci ha impartito una lezione di umanità straordinaria. Ha parlato della sua sofferenza, ma anche della speranza. Dell’odio per la divinità, ma anche della consolazione. In un discorso di pochi minuti ha riassunto tale e tanta di quella saggezza da lasciare tutti a bocca aperta. E io mi auguro che la fede sia per loro un sostegno, un sostegno che li aiuti ad andare avanti e a non cadere nella disperazione. Ognuno trova la consolazione come può, in situazioni così drammatiche avere una fede salda e forte può essere un grande aiuto.

Qui di seguito il pezzo letto durante l’omelia.

Un momento. Perché anch’io voglio dire quel che hanno già detto la signora, lì… e il giovanotto: non ce lo dovete toccare, Gesù. Noi non abbiamo l’intelligenza per stare delle giornate intere a ragionare… Noi siamo poveri… e semplici, e Gesù lo sentiamo, lo conosciamo, chiedo scusa, come fosse uno dei nostri. È il nostro tesoro. E allora non dovete toglierci questa sola cosa che abbiamo, ma che per noi è tutto. Gesù è tutto, per noi! Oh! Io sono una madre, lavoro qui, nel teatro – spazzo… le pulizie – oh! prendo proprio due soldi, e mi danno un buco di casa…

Eh! Che sono una madre con un figlio morto, volevo dire. Una vedova. Le madri alla mia età non dovrebbero lavorare, se avessero ancora il figlio… Io ho ascoltato tutto — non ho capito tutto, però la madre… la Madonna… l’ho capita, e mi son detta: «anch’io sono un po’ come lei…». Per carità, per carità… non è che io faccia dei paragoni. Mi perdoni, sa… Io mi son permessa di venire avanti… così pubblicamente… perché non capita mai di incontrarsi con la madre di Gesù a faccia a faccia… così come stasera….

Anche mio figlio un bel giorno se ne andò… I figli, buoni e cattivi, se ne vanno tutti… È un destino. Non mi disse nemmeno dove. Non portò via niente… perché non c’era niente da portar via da noi…  Quando si rifece vivo era un altro uomo. Io non lo potevo capire più. Era andato via biondo e mi ritornava per così dire, più scuro di capelli, e cupo, pensieroso, chiuso… Avevo perfino un po’ di timore di guardarlo, sapete com’è coi figli che vi diventano degli sconosciuti… oh! Rimase lì in casa, senza far niente. Lì in casa, e diceva certe parole, coglievo certe frasi… noi stiamo attente a tutto! Che discorsi, che discorsi, Dio mio! e non potevo capire. E quando si comincia a non capire più i discorsi dei figli è finita. Si deve star zitte, e aspettare.

Oooh! E una notte, battono. Chi è? Vengono a prenderlo, perché, dicono, è un sovversivo. Non domandatemi se era di questi, di quelli o di quegli altri… non importa proprio saperlo per quel che sto per dirvi… credetemi. Io dico: ma come un sovversivo? Mio figlio, che sta chiuso in casa? Che ha detto? Che ha fatto? Quelle solite domande… Portato via, scomparso, l’unico figlio. Un momento fa c’era. Dormiva. Dopo un momento… non c’è più! E poi mi mandano una carta: che è morto. Da non crederlo… da dar di volta il cervello… Non c’è più… ma io lo sento parlare, lui che non parlava mai con me… lo sento perfino chiamare. Voi, signori del processo, voi prima, avete parlato dei miracoli, ho sentito: ci sono, non ci sono, sono veri, sono falsi… un gran discutere… Io non lo so se ho capito, ma posso dire che a me è successo proprio un miracolo. Io ho detto prima che da un certo momento in poi, mio figlio era diventato come uno sconosciuto, per me… ma ecco che dopo la morte, mentre l’ammazzavano all’improvviso è resuscitato… resuscitato dentro di me. Me lo son sentito vicino, vivo, proprio come se fosse vivo e avesse confidenza in sua madre… Parla, dice quello che per anni non ha mai detto – le cose meravigliose… le parole che dice… e i sentimenti che mi confida, sapeste! E io so, ormai, lo sento, lo so, vi dico, lo so! che non passerà molto tempo che lo rivedrò, ci rivedremo, perché è vivo, è ancora vivo… Non è una favola… è una cosa vera, proprio vera, come se si toccasse… una certezza. C’è, là, in un posto, in un altro posto, ed è vivo! C’è, e mi aspetta, e ci ritroveremo… è così! È così! Io volevo dirvelo, ecco… Loro ci aspettano! Queste sono le sole cose che contano in questa nostra vita disgraziata! Non le toccate! Sono le sole che abbiamo… Siate buoni, signori giudici, siate un po’ buoni verso il Salvatore… e verso di noi… Buoni… buoni, buoni.

Di morte, di tristezza, di proponimenti

Ho sempre sostenuto che quando muore qualcuno a noi vicino, oltre al dolore della perdita si affaccia la consapevolezza della caducità della vita in generale, e in particolare della nostra. Ci si guarda nello specchio, e si capisce che esiste una data di scadenza. Non si vede, è nascosta. Ma sappiamo che c’è.

E di nuovo, come per il “niente è per caso”, non credo in un fato, o in un destino cinico e baro, che predetermina tutto e decide per noi. Credo nei percorsi tortuosi, credo negli incroci, credo nel fatto che quando si è pronti per affrontare certi incroci, questi si manifestano, altrimenti passano inosservati. Per cui non credo che la data di scadenza sia predeterminata. Ma il solo fatto che esista, ancorché ignota, è qualcosa che non abbiamo sempre presente.

E quando succede un incidente, che provoca una morte improvvisa, inaspettata, lì rimaniamo ancora più annichiliti. Non c’è stato tempo per abituarsi all’idea, non c’è stata una malattia, un travaglio, un’agonia, un qualcosa che ci abbia dato modo di pensare, di ragionare, di prepararci al peggio – che poi non si sia mai pronti, questo è un altro tema, ma credo di aver reso il concetto. Si riceve una botta al plesso solare e si rimane annichiliti. Il senso di perdita è enorme, la mente vola a immagini, attimi, parole, pensieri condivisi con chi è morto. E contemporaneamente si insinua questo senso di temporaneità, di caducità, come dicevo all’inizio. E la pesantezza si impadronisce di noi e non ci abbandona.

Oltretutto il rapporto con la morte è molto peggiorato nell’epoca moderna, specialmente in questo paese dove si fa dell’apparenza un valore, dove apparire giovani è più importante che esserlo, dove il pensiero della malattia e della morte sono scientemente confinati in angolini e cantucci invisibili. Non ci si pensa, si ignora il problema, pensando che ignorandolo lo si riesca ad esorcizzare. E invece è proprio il contrario. Perché pensare al fatto che ce ne andremo, che siamo di passaggio, che questo è un viaggio, ci aiuta a vivere meglio. A mettere in pratica il “sano” carpe diem. Dico sano perché carpe diem non significa “lasciati andare ché finirà tutto”. Carpe diem per me significa avere la capacità di apprezzare le cose belle che ci capitano, di farne tesoro e di cercare di restituire qualcosa del bello che assorbiamo.

C’è un’artista di New Orleans, che dopo aver subito un lutto, ha realizzato un progetto. Ha messo su un vecchio edificio abbandonato una enorme lavagna con scritto a caratteri cubitali “Before I die I will”, “Prima di morire io voglio”. Questo video di TED (con sottotitoli italiani) racconta cosa è successo

E allora ecco, pensiamoci, alla morte. Pensiamo a cosa vogliamo fare prima di morire. Pensiamoci spesso. Perché man mano che riusciremo a realizzare ciò che vogliamo fare, è come se avessimo messo giù tante pietre, dopo averle ben levigate, per costruire un muro. Che resisterà e resterà saldo, anche dopo che saremo andati. Come rimangono saldi in noi i muri costruiti dalle persone che abbiamo conosciuto, con cui abbiamo condiviso un pezzetto di strada, e non ci sono più.

Prima di morire voglio imparare ad ascoltare di più e ad arrabbiarmi di meno.

E voi?

Ciao Fuffone

F2Ho parlato qualche volta del mondo dei motociclisti. Ci sono persone di tutti i tipi. La maggior parte sono un po’ sbruffoni, nei bassifondi della Capitale si dice che “se la sentono calla”, si credono tutti i padroni del mondo, pensano di essere dei piloti sopraffini, di averne sempre di più.

A volte invece capita di conoscere qualcuno che esce da questo stereotipo. Capita di conoscere una persona che fa dell’allegria, dello scherzo una filosofia di vita. Uno che la leggerezza ce l’ha dentro. La leggerezza intesa nel senso nobile e puro del termine, la capacità di non prendersi sul serio, la capacità di relativizzare, la capacità di cogliere l’attimo e vivere la gioia di un momento.

E lo vedi, lo vedi e te ne accorgi da tante piccole cose. Lo sguardo sempre diritto nei tuoi occhi, per cominciare. L’abbraccio, stretto e secco, come a dirsi reciprocamente che sì, siamo amici. E ci piace sottolinearlo, con un abbraccio. E il sorriso. Il sorriso che è un sorriso a pieno volto. Che parte dalla bocca ma si estende a tutto il viso, e specialmente agli occhi. E la risata. La risata su una delle millemila battute, su una delle millemila prese in giro. Con un micro-ghigno appena accennato che diventa una risata poderosa, piena e sentita.

E uno bravo. Bravo a guidare, bravo a consigliare, disponibile e cortese, sempre e comunque. Ci siamo trovati varie volte a Vallelunga, ed è stato sempre un grandissimo piacere. E ho sempre imparato qualcosa.

F6Fabrizio, detto Wasabi. Ma soprattutto Fuffone. Fuffone perché sembra un orsacchiotto. Un orsacchiotto che gioca a fare il brontolone. E Fuffone se n’è andato. Se n’è andato la notte scorsa, sulla Cassia. Ha perso il controllo della moto, chissà, forse era umido, forse le gomme erano fredde, vai a sapere, vai a capire. Sta di fatto che (mi dicono) ha preso un guardrail, uno di quegli stramaledettissimi guardrail che ne hanno ammazzati a vagoni, di motociclisti. Dicono che era l’una di notte.

E in quest’era di comunicazione globale, l’ho saputo indirettamente via facebook. Ho visto un paio di stati che parlavano di un Fabrizio, non ho proprio immaginato. Ho googlato sulle news, e PAM! Sul Messaggero. Ho chiamato un amico, abbiamo condiviso l’incredulità. 43 anni. Non si può. E’ difficile da accettare, è difficile farci i conti. Soprattutto per quel che dicevo poc’anzi. Perché quando uno ha la gioia di vivere dentro diventa difficilissimo pensare che possa non esserci più. E non voglio cedere alla tentazione di raffigurarmelo in un qualche paradiso dei motociclisti. Perché sarebbe poco rispettoso nei suoi confronti. Voglio piuttosto pensare all’entanglement, al collegamento, al fatto che anche se non c’è è come se ci fosse, e che fa parte dell’universo proprio come prima. Però duole. Il cuore, duole tanto.

Ma io quel sorriso me lo ricorderò finché avrò fiato in corpo. E voglio inserire qualche foto di come ricordo di averti visto quando abbiamo girato insieme. Sono contento di averti incontrato. E non ci riesco ancora, a credere che te ne sei andato.

Ciao, Fuffone.

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