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Cappuccetto Rosso 2014

Sempre per la serie “esercizi di scrittura creativa” fatti a scuola, un po’ di tempo fa ci fu chiesto di scrivere una favola prendendo spunto da qualcosa di esistente. Ho pensato di riscrivere Cappuccetto Rosso in chiave moderna, e ho deciso di pubblicarla oggi dopo aver letto questo post di Michele.

cappuccetto_rossoIl vicino della nonna aveva telefonato alla mamma di Cappuccetto Rosso, dicendole che la situazione era critica e supplicandola di intervenire. La vecchia era di nuovo ubriaca, e andava in giro seminuda adescando i passanti. La mamma di Cappuccetto Rosso non poteva muoversi, aveva appuntamento con lo strozzino per i debiti di gioco, e la dilazione richiedeva di essere negoziata da lei in persona. Quindi ordinò a sua figlia di andare di corsa dalla nonna e di cercare di placarla. Cappuccetto rosso sbuffò, prese il suo zainetto Eastpak, ci buttò dentro dieci cialde Nespresso e un limone, e pensò che stavolta la vecchia gliel’avrebbe pagata. Le avrebbe fatto vomitare anche l’anima.
La nonna non faceva altro che bere, bere, bere. Puntualmente si ubriacava con il Vecchia Romagna. E almeno le fosse presa la sbronza triste! No, le venivano i deliri di onnipotenza, le voglie di un’adolescente. Era una nonna molto giovanile, una cinquantenne d’assalto. Rimasta incinta a 18 anni, era diventata nonna a 45, andava in palestra e si teneva ancora piuttosto bene. Solo che quando si ubriacava combinava dei casini pazzeschi, l’alcool le risvegliava i calori. Una volta aveva iniziato a telefonare a numeri a caso fingendo di lavorare per una linea erotica, ma stavolta evidentemente aveva alzato il tiro. Cappuccetto Rosso sapeva che non avrebbe avuto il tempo di andare alla lezione di acqua-bike, e questo la fece imbestialire ancora di più. Per non parlare del fatto che le sarebbero toccati i compiti dopo cena. Sbuffò, e si avviò.
Mentre usciva la madre le gridò dietro di seguire la strada e di andare diritta a casa della nonna. Cappuccetto Rosso alzò gli occhi al cielo, le gridò un sì svogliato di rimando, e sbattè la porta dietro di sé.
Mentre camminava di buon passo, distraendosi con un’amica su whatsapp e twittando compiaciuta l’hashtag #nonnestronze, incontrò un lupo, un gran bel lupo tutto lucido e palestrato. Il lupo le strizzò l’occhio, e le chiese dove andasse mai, tutta sola. Cappuccetto Rosso rispose che andava da quella rompicoglioni della nonna, senza precisare che era ubriaca fradicia.  “Ah”, disse il lupo, “e dove abita?”. “Nella radura in fondo al sentiero”, rispose Cappuccetto Rosso. Il lupo tirò fuori l’iPhone, aprì Google Maps e visualizzò l’immagine satellitare della radura dove abitava la nonna. “Qui? Caspita, devi stare attenta, nel gruppo Facebook BoscoNews dicevano che c’è un po’ di casino da quelle parti, pare addirittura vogliano chiamare la polizia”. “Come la polizia? Ma guarda ‘sta vecchia stronza…” Cappuccetto Rosso si rese conto di essersi tradita. A quel punto qualcosa si ruppe dentro di lei. Scoppiò a piangere e raccontò tutto al lupo, della madre, degli strozzini, della vecchia che aveva i calori, e soprattutto di quanto non ne poteva più, della vecchia. Il lupo le disse di calmarsi, che lui le poteva regalare un po’ di relax. Gli avevano portato dell’erba da Amsterdam, roba di prima qualità, che stava dando via a 10 euro a pezzo, ma siccome quel giorno si sentiva particolarmente buono, e lei stava vivendo un gran brutto momento, le avrebbe fatto un regalo. E porse a Cappuccetto Rosso una canna già rollata. La bambina ringraziò, pensò che quella era la sua giornata fortunata, e se ne andò sotto un albero a fumare. Quell’erba era buona davvero, pensò, e rifletté sul fatto che evidentemente esisteva ancora qualcuno in grado di fare un bel gesto.
Dopo una mezz’oretta, Cappuccetto Rosso si rimise in cammino, e arrivò finalmente a casa della nonna. Premette il pulsante dei videocitofono, ma lo schermo rimase grigio, la telecamera era evidentemente guasta: una voce, che le parve un po’ troppo roca, le disse di entrare. “Guarda tu se ‘sta stupida vecchia si è presa pure il raffreddore… ma ti pare, andare in giro seminuda…” pensò. A voce alta disse “Nonna dove sei?” “In camera da letto, non mi sono sentita molto bene…” rispose la voce roca.
Cappuccetto Rosso salì le scale ed entrò nella stanza. Le parve che la nonna fosse diversa dal solito. Era ancora un pochino stonata dopo la canna, ma guardando fissa la cornice elettronica sopra il letto, che proiettava le immagini di quando la nonna faceva l’indossatrice, Cappuccetto Rosso verificò che le foto non le apparivano sfocate: era sufficientemente lucida; era la nonna che era strana. “Nonna ma che occhi grandi che hai” “Per guardarti meglio, nipotina mia” “Nonna ma che orecchie grandi che hai” “Per ascoltarti meglio, bambina mia”. Cappuccetto Rosso pensò che la nonna non l’aveva mai chiamata con quei vezzeggiativi in tutta la sua vita, quando all’improvviso si sentì un gigantesco rutto, che aveva tutta l’aria di provenire da sotto le lenzuola. La bimba a quel punto prese l’iniziativa e con un solo gesto tirò via le coperte. E quale non fu la sua sorpresa nel vedere che quella che lei credeva la nonna era in realtà il lupo incontrato nel bosco, e che la sua vera nonna era rannicchiata accanto a lui! “Nonna ma che diavolo stai facendo?” “Eh, Cappuscetto… ci sc-sc-stavamo divertendo un po’”, biascicò la nonna per tutta risposta. Il lupo era visibilmente imbarazzato e si affrettò a ricoprirsi. “Ma brutto stronzo”, disse la bambina “ora capisco… mi hai dato la canna solo per tenermi buona mentre venivi qui a farti mia nonna?” Il lupo guardava in basso senza rispondere. Cappuccetto Rosso cominciò ad inveire contro il lupo e contro la nonna, e mentre urlava e strepitava si sentì il cicalino del videocitofono. Cappuccetto Rosso prese la cornetta e abbaiò “Chi è?”. “Va tutto bene? Sono il cacciatore” “Ah, ecco giusto il cacciatore! Sali, va, che ti faccio svoltare la giornata! La porta è aperta”. Cappuccetto Rosso si voltò nuovamente e vide la nonna che cercava di entrare nell’armadio. “Nonna che cazzo stai facendo? Invece di fare la cretina mettiti addosso qualcosa, che sta salendo gente!” Il lupo era sempre più disorientato. Il cacciatore irruppe nella stanza. Cappuccetto Rosso lo apostrofò “Ehi, bello! Guarda un po’ cosa ti offro!! Un bel lupo caldo caldo, così puoi ammazzarlo e poi andare a farti bello dal sindaco! Sai cosa ha combinato? E’ venuto qui e si è fatto mia nonna!” “Cosa?” disse il cacciatore piantando gli occhi sul lupo “ma come sarebbe, si è fatto tua nonna?” Poi si rivolse alla nonna e le disse “E tu? Non hai niente da dire?” Anche la nonna ora guardava per terra. “Lo sapevo!! Lo sapevo, che non dovevo fidarmi! Non ti tradirò più, avevi detto… e ora? Ti trovo col primo lupo che capita?” Cappuccetto Rosso era pietrificata. Non riusciva a credere alle proprie orecchie. Il suo sguardo si spostava dalla nonna, al lupo, al cacciatore. “Che cazzo hai da guardare, ragazzina?” disse il cacciatore “Sto insieme a lei, e allora? Solo che mi ha messo sempre un cesto di corna! Certo che stavolta”, continuò guardando il lupo con uno sguardo strano “stavolta non si può neanche darle torto, con questo bel lupo muscoloso… chi non cederebbe?” La mascella di Cappuccetto Rosso cadde, lasciandola a bocca spalancata. “Ma scusa, sarai mica gay? Ci credo che ti mette le corna, scusa!” “Bisex, prego. E comunque questo non c’entra niente con le corna. Le corna me le mette solo perché è una grandissima PUTTANA!!!” E su queste parole prese il fucile e sparò alla nonna, uccidendola sul colpo.

Ora, per riguardo ai bambini, ometteremo di raccontare cosa avvenne in seguito fra il lupo e il cacciatore. Sappiamo però che la madre di Cappuccetto Rosso vendette la casa della nonna e pagò gli strozzini, e tutti vissero felici e contenti.

Gli occhi più grossi della pancia

Ieri ero a pranzo con un collega, io ho preso la mia insalata con mozzarella, lui si è lanciato in una fetta di pesce spada arrosto e, dopo lunga indecisione, ha deciso di accostare anche una mezza porzione di orecchiette con i moscardini. Sta di fatto che alla fine delle orecchiette si è pentito di aver preso entrambi, e il mio commento di getto è stato “hai gli occhi più grossi della pancia”, che è una cosa che mi diceva mia madre quando ero bambino.

Mi ricordo distintamente una volta che accadde, avrò avuto undici anni (mi pare di ricordare che andavo alla scuola media, per questo dico 11) ed ero andato a passeggio con mia nonna. La nonna mi chiese se volessi mangiare qualcosa, era più o meno metà mattina, e io le chiesi un pezzo di pizza bianca. Entrati dal fornaio, la nonna non aveva la più pallida idea di quanta chiederne, e io baldanzosamente le dissi che ne volevo 100 lire. Normalmente non ne prendevo mai più di 50 lire, per problemi di budget, e non mi pareva vero di poter esagerare… Sta di fatto che la pizza la mangiai tutta, ma saltai il pranzo, e mia madre mi disse che avevo gli occhi più grossi della pancia.

Ma il mio rapporto con la voracità non si limita a questo. Quella poveretta di mia sorella ha subito per l’intera infanzia le mie angherie. Mi spiego. Sono sempre stato una buona forchetta sin da piccolo, e anche (purtroppo) molto veloce a mangiare e molto, molto vorace. Bocconi da orco, li chiama mia moglie. Mia sorella invece da piccola aveva un rapporto col cibo non proprio idilliaco, mangiava poco e molto, molto, mooooooolto lentamente. In questa situazione è facile immaginare che quando io finivo quanto avevo nel piatto lei era ancora all’inizio dell’incomincio. E a quel punto io iniziavo a darle il tormento. “Ti va tutto?” “Non lo so, poi te lo dico” “No perché se non ti va tutto è meglio che me lo dici ora, ché poi si fredda” “Non ho idea, te lo dico dopo” “Beh non capisco come faccia a non saperlo, poi lasci sempre la roba nel piatto” “Ok tieni”. Finiva così quasi sempre, e quando non finiva così finiva in pianto con annessa sgridata al sottoscritto, con sganassone opzionale; anche se, a ben pensarci, che a casa mia gli sganassoni più che “una tantum” erano “una semprem” :lol:.

Era vero che lasciava quasi sempre parte di ciò che aveva nel piatto, ma io ero veramente un bel tormento. Debbo dire che lasciare nel piatto qualcosa significava far scattare l’anatema “Pensa ai bambini del Biafra”. L’anatema si è rivelato potente al punto che ancora oggi, con oltre mezzo secolo di vita sulle spalle, io NON POSSO lasciare nulla nel piatto. Non posso proprio, è più forte di me, e per una volta non c’entra col piacere innegabile che mi dà il cibo, è proprio un condizionamento, per il quale non si separa il grasso dal prosciutto, non si buttano i nervetti della carne, e le ossa di pollo si spolpano sino a renderle lucide.

E quindi nella mia testa di bambino affamato (e già ingegnere in pectore con processi razionalmente definiti e scolpiti nella pietra) non mi capacitavo a) che non si fosse in grado di stabilire quanta fame si avesse, o meglio non si riuscisse a dire se si riusciva a finire quanto si aveva nel piatto, e b) che mia sorella non mi fosse grata per l’attenzione che le riservavo dandole una possibilità di scampare l’anatema nel quale quasi certamente sarebbe incorsa!

Valle a capire, le femmine…

Romanesco, fagiolini e mia nonna

Qualche giorno fa ho comprato dei fagiolini freschi. Non capitava da una vita, perché i fagiolini surgelati sono assai più comodi, perché non vanno “capati”, come si dice nei soliti bassifondi della solita Capitale. Mi piace usare dei dialettismi, in realtà non conosco il romanesco così bene, quando l’ho imparato i trasteverini veri erano già una razza in via di estinzione, per cui il romanesco vero, quello del Belli per capirsi, già non esisteva più da un pezzo. E però alcune cosettine, alcuni termini qua e là, sono sopravvissuti all’imbarbarimento del dialetto. E quindi, al di là dell’accento e della pronuncia, della quale impartisco ripetizioni a Iaia con scarsa costanza ma con grande determinazione (e debbo dire che Iaia si è rivelata un’allieva straordinaria, e ricambia i miei insegnamenti con delle perle di siculo che, ahimé, non riesco a introiettare e far miei come meriterebbero e come io vorrei), quando capita una parola della tradizione la uso. Capare è una di queste, e significa scegliere o pulire a seconda del contesto. In realtà i significati sono più vicini di quanto non appaia, uno essendo l’estensione dell’altro. Capare la verdura, nel caso di verdura a foglia larga, significa scegliere le foglie buone e scartare quelle cattive. Per estensione quindi si usa per pulire, e in particolare nel caso dei fagiolini si riferisce all’operazione di togliere le due punte. Che è un’operazione di pazienza, lenta e noiosa.
E mentre mi organizzavo, da qualche oscuro meandro della mia memoria si è affacciata l’idea di mettermi in grembo una ciotola, di poggiare i fagiolini sul tavolo, e di mettere un’altra ciotola vuota sul tavolo. E ho iniziato a capare i fagiolini, e dallo stesso meandro mi è venuta l’indicazione di ruotare la mano che tiene il fagiolino e porgere la punta da togliere all’altra, in attesa di troncarla con l’unghia del pollice. E mentre lavoravo, inizialmente incerto, poi più spedito, d’improvviso ho capito che quell’oscuro meandro era lo stesso che conteneva il ricordo di mia nonna paterna.
Mia nonna è stata la protagonista di una vera storia d’amore. Nata poco prima della fine del XIX secolo, in una famiglia di origini modeste, per non dire umili, si era innamorata, ricambiata, di un nobiluomo, mio nonno, fratello minore del futuro conte. Mio nonno, che era evidentemente un temerario, organizzò una fuga d’amore e portò mia nonna in Spagna, dove la sposò. Ebbero tre figli, tutti maschi, il più piccolo era mio papà.
Entrambi i nonni pagarono questa fuga a caro prezzo. Un figlio, il secondogenito, morto in circostanze misteriose a 25 anni. Un altro, il maggiore, deportato a Dachau e sopravvissuto per miracolo, ma con la vita segnata per sempre. Mio nonno stesso, morto di infarto durante la prigionia del figlio. Mia nonna, rimasta sola, fu aiutata dalla famiglia di mio nonno, e per lunghissimo tempo visse a Torino. In vecchiaia si trasferì a Roma per stare più vicina a mio papà. Io ero già grandino, sicuramente al liceo. E venne a vivere in un appartamento abbastanza distante da dove abitavo io, ma tutte le settimane prendeva 3 autobus e veniva a noi a pranzo. E oggi capisco che non riusciva a staccarsi dall’idea di doversi “guadagnare” il pranzo. Non che mia madre le facesse pesare alcunché, da brava teutonica aveva messo il pranzo settimanale nel suo casellario e nel regolamento della casa, come faceva praticamente con tutto. Ricordo che il mercoledì era il giorno della spesa al mercato, il giovedì la pulizia del frigorifero, il venerdì i vetri, e così via, in una teoria di attività cadenzate da una periodicità, che poteva essere quotidiana, settimanale o mensile, ma aveva una ineluttabile precisione. Se non ricordo male il giorno di mia nonna era il martedì. E insomma mia nonna esigeva di fare qualcosa, di rendersi utile, con la scusa di non essere capace a stare con le mani in mano. E quindi grattava il parmigiano, puliva le verdure, e capava i fagiolini. Al rientro da scuola (allora non era infrequente uscire alle 12.30, e la scuola era vicina, quindi arrivavo a casa che ancora non era ora di andare a tavola) capitava che la trovassi a pulire i fagiolini, e mi incantavo a guardarla. La rapidità con la quale prendeva un fagiolino dopo l’altro era tale che quasi sembrava non facesse nulla. L’unica testimonianza erano i capi che le finivano in grembo, lei allargava le gambe e sistemava un foglio di giornale sulla gonna, che alla fine veniva arrotolato con dentro gli scarti.
Cornetti. I fagiolini lei li chiamava cornetti.

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