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Buon viaggio

E così è finita. Te ne sei andato zitto zitto, senza aspettare le tue figlie, tuo figlio, senza neanche Dora, la signora che ti accudiva da tanto. Ti ho conosciuto trent’anni fa, mia moglie ti aveva disegnato come un Orco. Ma a me non parevi un orco, né con la O né con la o. Anzi, mi sembravi una persona ospitale. Ti piaceva cucinare alla romana, e quante cose mi hai insegnato! E quante cose facevi anche tu…

E adesso basta. Il tuo viso è sereno, tutta quell’acrimonia degli ultimi tempi è stata cancellata da un’espressione di tranquillità. Sei andato via serenamente, niente smorfie di dolore, solo un sorriso sulla faccia. Ti auguro di aver rivisto quella luce che avevi raccontato si vedeva, quella volta che a momenti te ne stavi andando. Quante volte abbiamo pensato che non l’avresti sfangata? Io ho perso il conto, e anche l’ultima volta, prima del ponte di S. Pietro e Paolo, quando ti hanno ricoverato in terapia intensiva con la pressione che segnava 20-40, e il medico ci ha detto che non riuscivano a infilarti l’ago della flebo perché avevi “le vene sgonfie”, ecco anche allora ho pensato che non ce l’avresti fatta.

E invece dopo tre giorni ti hanno trasferito in reparto, ancora una volta rinato a nuova vita. Ma evidentemente quel processo di degenerazione che era iniziato non si poteva fermare. E così alla fine anche tu ti sei arreso.

Me lo dicevi qualche mese fa, che ti eri stufato. Che non ne potevi più. E credo che fosse la non accettazione del venir meno del tuo corpo, che ti ha sostenuto per tutta la vita. Un toro, sei sempre stato. Fino a oltre sessant’anni ti sei curato, da solo, la campagna, dove scappavi con tua moglie ogni volta che era possibile. Cento piante di ulivo e la vigna, e poi il vino, e gli alberi da frutto, e l’erba medica, e chi più ne ha più ne metta. Infaticabile, mi sembravi, davi dei punti a me che ero ben più giovane e potenzialmente ben più aitante di te.

E quindi c’era in te questa dicotomia quantistica, per cui eri contemporaneamente un lottatore senza tregua da una parte, ma anche alla fine un vecchio stanco di vedere il corpo che non risponde più come una volta.

Ti ho voluto bene, e non sono uno che vuole bene con facilità. Ti ho voluto bene perché me ne hai voluto tanto tu. Non solo per quello. Ti ho voluto bene perché ho visto quanto bene volevi a tua figlia, mia moglie. Ho visto quanto ci tenevi a far pace con lei, quando litigavate. Ho visto come fosse per te un riferimento, proprio come tu lo eri per lei. Siete simili, molto simili. E dietro quell’apparenza burbera e litigiosa c’è tanto amore l’uno per l’altra. E poi ho visto quanto bene volevi alle bambine, sino all’ultimo giorno che ci siamo visti mi hai chiesto della laurea di Cippi. E in terapia intensiva volevi il telefono per chiamare i nipoti.

E sì, l’ho scritta, quell’orazione che leggerò dopodomani. L’ho scritta come mi hai fatto promettere. L’ho scritta oggi pomeriggio, sul tavolo della cucina, quello dove giocavi a carte con tua moglie, dove facevi la Settimana Enigmistica, dove preparavi i quadrettoni. Che oggi Cippi ha fatto e ha portato a casa tua, perché, parole sue, “nonno avrebbe voluto così”. E quando ci siamo seduti a tavola e abbiamo mangiato, quei quadrettoni è come se li avessi preparati tu, e credo che non solo a me sia sembrato di vederti a tavola con noi. In quell’orazione ti dico che ti chiamo papà anche se non lo sei, il mio papà, ma non per vezzo, ma perché non mi è mai venuto di chiamarti per nome, perché ho sempre sentito una forte empatia e un forte affetto.

E allora ciao papà, buon viaggio.

Il contest della dottoressa Cippi

E’ un bel po’ che non scrivo, e ci sono tanti motivi. Solo qualcosa di importante avrebbe potuto smuovermi. E la dottoressa Cippi ci è riuscita. Chi non sa chi sia la dottoressa Cippi può leggere questo post.

Ebbene, a parte il fatto che la dottoressa Cippi sta per diventare la dottoressa specialistica Cippi, avendo finito tutti gli esami ed essendo prossima alla conclusione della specializzazione in Marketing, dovete sapere che la dottoressa Cippi non ha abbandonato la passione per tutto quello che ha a che fare con l’estetica professionale. E quindi un giorno ha deciso di partecipare ad un contest indetto da L’Oreal. E a fronte di centinaia di video prodotti, e spediti a L’Oreal, ebbene la dottoressa Cippi risulta tra i 20 semifinalisti.

C’è da dire un’altra cosa. Che tra tante modelle possibili, la dottoressa Cippi ha scelto la sorella. E il video del contest inizia con una presentazione in cui ci sono entrambe. La modella è sempre muta, ma la sua espressione è assolutamente degna di nota.

Questo video è emozionante, perché con la giusta chiave di lettura si riesce a capire quanto amore ci sia tra le due sorelle. E questa cosa per me è impagabile.

E allora, vi prego innanzitutto di guardare questo video, dura meno di tre minuti e mezzo.

E successivamente vi prego di cliccare su questo link e votarla. Se poi potete anche spargere voce su Facebook, Twitter, altri social, piuttosto che fare reblog, vi sarò grato, molto. 

Ci tengo a dire che non è bieco clientelismo questo. La dottoressa Cippi è brava davvero. Per questo vi ho chiesto di vedere prima il video.

Grazie.

Stavolta

voragineStavolta il buco è più profondo. Molto di più. L’ho detto molte volte, l’incapacità di relativizzare è parte della vita di tutti. “Pensa a chi sta peggio” è la frase peggiore che si possa pronunciare. Come ha detto il mio amico redpoz in questo post, anche “andrà tutto bene” è una grandissima boiata, da dire e da sentire. Perché che ne sai? Che ne sai che andrà tutto bene? E che ne sai di come mi sento, e come fai a dire come si sente chi sta peggio? Qual è il metro? Qual è la misura? Il cibo quotidiano? Il tetto sulla testa? Ok, mi è andata di culo. Sono nato qui. Ma un po’ del mio, puttanaccia eva, ce l’ho messo anche io. Sono lustri che mi rompo il fondoschiena. Avrò diritto, considerate le condizioni al contorno, ad un tetto sulla testa e al cibo?

Non voglio farne un problema di meritocrazia. Voglio però sgombrare il campo da facili illusioni. Se uno si sveglia pensando “oddio un altro giorno” non è proprio un bel sentire, ecco.

E allora si prova a resistere, e si prova e si riprova. E poi viene il momento che si dice, ok. Anche se sono tre anni che ne faccio a meno, ok. Prendo i farmaci. Ma i farmaci non funzionano. E allora si prova a cambiare farmaco. E qualcosa fa, ma non troppo. La notte è una sequenza di risvegli con cadenza oraria più o meno.

E intanto i giorni passano. Cerco di dimenticare. Di andare oltre. E’ una fatica immensa.

P.S.: Ringrazio tantissimo sguardiepercorsi che mi ha indirizzato a questo video di Andrew Solomon, che inizia con una meravigliosa poesia di Emily Dickinson, riportata qui di seguito.

I felt a Funeral, in my Brain,
And Mourners to and fro
Kept treading—treading—till it seemed
That Sense was breaking through—

And when they all were seated,
A Service, like a Drum—
Kept beating—beating—till I thought
My Mind was going numb—

And then I heard them lift a Box
And creak across my Soul
With those same Boots of Lead, again,
Then Space—began to toll,

As all the Heavens were a Bell,
And Being, but an Ear,
And I, and Silence, some strange Race
Wrecked, solitary, here—

And then a Plank in Reason, broke,
And I dropped down, and down—
And hit a World, at every plunge,
And Finished knowing—then.

Interiorità complesse

RobinWilliams

Ne parlo spesso, di interiorità, di complessità interiori, di sentimenti che magari non appaiono all’esterno, di apparenze che ingannano. E pensando al suicidio di Robin Williams non si può non pensare proprio alle apparenze che ingannano. In un articolo di Alastair Campbell di oggi c’era una frase splendida.

The most retweeted tweet I have ever done was one I posted when Stephen Fry had talked of another suicide attempt. ‘To those asking what Stephen has to be depressed about,’ I asked ‘would they ask what he has to be cancerous, asthmatic or diabetic about?’

La forza espressiva dell’inglese in questa costruzione è straordinaria, con quell’about alla fine della frase che in una parola riassume un concetto amplissimo. La traduzione potrebbe essere, più o meno: “Il mio tweet più ritwittato è stato quando Stephen Fry aveva parlato di un ennesimo tentativo di suicidio, che diceva: A quelli che si chiedono cosa avesse da essere depresso Stephen, dico semplicemente se si chiederebbero cosa avesse da essere canceroso, diabetico, o asmatico”.

Voglio fare una digressione. Spesso parlo con persone che mi conoscono di un paradosso che mi colpisce per la sua semplicità, ma drammatica irresolubilità. Viviamo in un posto del mondo nel quale quando usciamo e diciamo “Ci vediamo stasera” possiamo tranquillamente affermare che il livello di attendibilità di quest’affermazione, che si riferisce alle successive 8-10 ore, ha una probabilità di essere vera del 99,9999%. Uso quattro nove dopo la virgola perché l’imprevisto è sempre in agguato, un incidente può capitare. Ma il punto è che esiste una parte importante di mondo, e una percentuale significativa di persone, per le quali la stessa affermazione ha una probabilità di esser vera molto, molto inferiore. E non penso a Gaza di questi giorni, ma penso a territori da sempre martoriati e tormentati. Ebbene, pensando a questo, alzandosi la mattina ciascuno di noi dovrebbe semplicemente fare quattro capriole e andare incontro alla propria giornata con allegria sbarazzina. E invece no.

E invece si scopre che anche Robin Williams, una persona che nell’immaginario collettivo non ha motivo di essere men che felicissimo, anche lui finisce per non trovare più un senso nell’andare avanti, e si impicca con una cintura. Non si imbottisce di alcool, non si fa di coca, non prende funghetti allucinogeni. No. Prende una cintura, se la mette intorno al collo, e se ne va. Forse perché non ha più voglia, forse perché non trova un senso, forse perché i mostri che ha dentro hanno preso il sopravvento.

Mi piace parlare di interiorità complesse per indicare persone che hanno particolari sensibilità. Persone che sono in grado di apprezzare delle sfumature. Persone che sono capaci di vedere cose che altri non vedono, che altri osservano di sfuggita. Ma queste sensibilità hanno un prezzo, di norma. Questo prezzo spesso e volentieri è costituito da zone tenebrose sepolte nelle profondità più nascoste. Veri e propri vasi di Pandora che se per qualche strana alchimia si socchiudono lasciano uscire mostri oscuri. Ma se non ci fossero quei vasi di Pandora forse non ci sarebbero neanche le sensibilità che rendono grandi le persone come Robin Williams.

Non ho una conclusione, non ho una ricetta, non ho una risposta, né voglio, come Alistair, dire che la depressione va considerata come una malattia. Però mi piacerebbe una cosa. Che la si piantasse di dire “Ma cosa mai avrà avuto da esser depresso, Robin Williams”. Questo mi piacerebbe davvero.

Chi sono io?

Chi sono io?” chiese un giovane ad un Maestro di spiritualità.
“Sei quello che pensi” rispose il saggio. “Te lo spiego con una piccola storia”.
Un giorno, dalle mura di una città, verso il tramonto si videro sulla linea dell’orizzonte due persone che si abbracciavano.
“Sono un papà e una mamma”, pensò una bambina innocente.
“Sono due amici che s’incontrano dopo molti anni”, pensò un uomo solo.
“Sono due mercanti che hanno concluso un buon affare”, pensò un uomo avido di denaro.
“È un padre che abbraccia un figlio di ritorno dalla guerra”, pensò una donna dall’anima tenera.
“È una figlia che abbraccia il padre di ritorno da un viaggio”, pensò un uomo addolorato della morte di una figlia.
“Sono due innamorati”, pensò una ragazza che sognava l’amore.
“Sono due uomini che lottano all’ultimo sangue”, pensò un assassino.
“Chissà perché si abbracciano”, pensò un uomo dal cuore arido.
“Che bello vedere due persone che si abbracciano”, pensò un uomo di Dio.
“Ogni pensiero, concluse il Maestro, rivela a te stesso quello che sei”.

Per la serie niente è per caso, mi sono imbattuto in questa storia proprio nel giorno in cui qualcuno mi ha detto che il motivo per cui ho un blog è vendere mercanzia. Libri, nello specifico. Lì per lì mi ero fatto una risata, poi quell’affermazione mi è tornata in mente quando ho letto questo pezzo.

E con questo spunto, ho iniziato a riflettere su me stesso, su quello che penso. La cosa difficile, come sempre, è non fermarsi alla superficie. Sono i pensieri profondi, che vanno analizzati. Quelli che magari non riusciamo neanche a visualizzare con chiarezza, concetti e sensazioni che sono stimolati dalla vibrazione di corde profonde.

E’ come quando vibra una corda grossa. La frequenza è talmente bassa, e lo spessore della corda è talmente grosso, che non si sente alcun suono, ma si avverte la vibrazione dentro il petto. Ecco, se si riesce ad avvertire, il pensiero profondo, va preso e guardato bene, anche e soprattutto se ci rivela cose che non ci piacciono del nostro modo di essere. E’ il primo passo per generare un cambiamento. E d’altra parte, come dico sempre, un viaggio di mille li comincia con un singolo passo.

oscillazioni

Il silenzio

czb3_10Esiste qualcosa di più grande e più puro
rispetto a ciò che la bocca pronuncia.
Il silenzio illumina l’anima,
sussurra ai cuori e li unisce.
Il silenzio ci porta lontano da noi stessi,
ci fa veleggiare
nel firmamento dello spirito,
ci avvicina al cielo;
ci fa sentire che il corpo
è nulla più che una prigione,
e questo mondo è un luogo d’esilio.
(Kahlil Gibran)

Quando succede qualcosa di brutto vedo tanti che sventolano le gengive con la lingua, alcuni si crogiolano nella bruttura, altri si limitano a ribadire l’ovvio. Quando c’è una vittima come si fa a non solidarizzare. Ma detto questo, che è dovuto, ma davvero prossimo all’ovvio, sul resto, tutto il resto, preferisco tacere.

Il ponte

Golden Gate Bridge

Questo video di Ted è meraviglioso. Per molti anni il sergente Kevin Briggs, oggi in pensione, ha pattugliato il lato sud del Golden Gate, il famoso ponte di San Francisco, che è utilizzato da moltissime persone per suicidarsi. Kevin racconta dei suoi incontri con gli aspiranti suicidi. Racconta di come il solo fatto di ascoltare cambi la prospettiva. Racconta dei due casi in cui anche l’ascolto non è servito.

E’ il mal di vivere, che porta le persone sul Golden Gate. Kevin dice che quelli che si sono salvati raccontano di essersi pentiti di aver fatto il salto appena “partiti”. Chissà se non sia invece quel che si raccontano, considerando di non essere riusciti nell’intento. Circa 4 secondi di volo, quasi 70 metri, velocità di impatto 130 km/h. L’acqua diventa cemento.

E in quei momenti se si incontra qualcuno, questo dice Kevin, qualcuno che ascolta, magari l’aspirante ci ripensa. Chissà come si arriva alla determinazione di andar giù da un ponte. Chissà come avviene il ripensamento, una volta che si è deciso. Uno dei due che non è riuscito a convincere, a un certo punto gli ha detto “Mi spiace Kevin, ma ora devo andare”. Ed è scivolato. Dice Kevin che il mal di vivere è essere senza speranza, non avere prospettiva, non avere fiducia nel futuro, a fronte di eventi drammatici. Chissà quanta parte ha il non sentirsi amati, nel mal di vivere, chissà quanta ne ha il non amare. Ho letto una citazione tempo fa, di qualcuno (non ricordo chi) che è stato accanto a molte persone poco prima che morissero (non suicide stavolta), e rilevava che nessuno aveva rimpianti di tipo materiale. Tutti rimpiangevano di non aver amato abbastanza. Alla fine, e lo dico consapevole che sembrerò smielato, tutto ruota intorno all’amore. Perché gli aspiranti che hanno parlato con Kevin, che gli hanno detto grazie per averli ascoltati, alla fine hanno ricevuto amore. E questo li ha fatti desistere.

Sono in ritardo con la vita

orologio

La paternità di questa espressione è di mia sorella, e rispecchia perfettamente la sensazione prevalente che ho da un po’ di tempo a questa parte.

Devo scrivere a una quantità di persone imbarazzante. Devo sistemare cose dentro casa da una vita. Devo portare la macchina dal meccanico. Devo finire di scrivere due racconti su commissione che ho in testa appena abbozzati. Devo fare gli esercizi per la scuola. Devo lavorare. Devo vedere persone. Devo ricominciare a fare attività fisica. Devo leggere almeno quattro-cinque libri che attendono risposta. Devo vedere moltissimi film. Devo leggere ennemila blog sui quali sono in ritardo. Devo sistemare una serie di faccende sul pc. Mi sento compresso, oberato di impegni da portare a termine, arrivo alla fine della giornata avendo fatto molte cose, ma con l’unico risultato concreto di aver allungato ancora un po’ la lista dei devo. Ché per ogni crocetta che metto accanto ad una cosa fatta, ne sorgono altre due da fare.

Mi sa che prenoto una vacanza. Una settimana al mare. E per tutti quei “devo”, almeno per una settimana applicherò il metodo SGC.

Grim reaper

ReaperHo letto due post, ieri, di due blogger che seguo e che penso scrivano meravigliosamente bene, e tutti e due parlavano di morte. Due approcci, due racconti, due punti di vista. Da una parte una collega che improvvisamente se ne va, sola, da single. Se ne accorgono perché non risponde al cellulare. Dall’altra parte una notizia di condanna di un amico, che arriva da un medico, una sentenza senza appello, una scadenza vicina, vicinissima. Il vuoto lasciato dalla collega, una morte avvenuta. La condanna dell’amico, una morte annunciata.

Ma sempre di morte si tratta. Sempre la morte ci troviamo a contemplare. E per non guardarla in faccia guardiamo le immediate vicinanze, la scrivania vuota della collega con le ultime attività lavorative effettuate, il tentativo di reazione dell’amico ed il contrasto con la disperazione della moglie. In matematica esistono gli “intorni”, sono quelle regioni di spazio che sono attorno ad un punto. Ecco, ci focalizziamo sull’intorno del punto, esaminiamo minuziosamente la regione di piano immediatamente adiacente al punto, ma il punto, il centro dell’intorno, la signora con la falce (the Grim Reaper, la Triste Mietitrice) no, quella non la guardiamo.

Sostengo da molto tempo che quando viene meno una persona vicina siamo colpiti. E la vicinanza non è necessariamente detto che corrisponda ad una parentela. Un amico, un collega, ci è vicino per affinità, o per tempo trascorso insieme.

Il motivo per il quale siamo colpiti va al di là del dolore per la perdita, della disperazione per il distacco. Il problema è che siamo costretti a confrontarci con la caducità dell’esistenza. Il problema è che siamo costretti a guardare il punto. E il punto è la nostra stessa morte, il nostro stesso essere di passaggio, non eterni. Viviamo come se fossimo eterni per la maggior parte della nostra giornata. Ho già scritto altrove come, complice una gestione scellerata dei mezzi di comunicazione di massa, siamo progressivamente stati condotti in uno stato di intorpidimento che ci fa pensare che l’eterna giovinezza sia a portata di mano, che potremo restare in questa vita ad libitum, che non ci sono più barriere anagrafiche a impedire alcunché.

E invece no. Invece abbiamo una data di scadenza. Solo che ignoriamo qual è. Ma fintanto che la ignoriamo, pensiamo che non esista. E’ di tutta evidenza che se stessimo tutto il giorno a pensare alla nostra morte non potremmo far nulla. Ma è altrettanto vero che se mai ci pensiamo, mai ci rendiamo conto che è importante tornare alle domande fondamentali, tornare alla ricerca di noi stessi. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. E come sempre, non è importante quale sia la risposta. L’importante è cercarla, la risposta. Perché è il viaggio, e non la meta.

[The Others] Niente è per caso

Ho ricevuto un invito a scrivere un post da un blogger, l’ho fatto cercando di sintetizzare il Wish-pensiero. Ne è uscito un “pippone” dei miei… 😀

Il Bandolo del Matassa

Giocare a “fare il blogger” è un’esperienza curiosa – curiosamente interessante – piena di sorprese. Mi aspettavo che aprire un blog fosse un po’ come aprire una finestra: affacciarsi da un riquadro sul mondo, ma restando al sicuro fra le proprie mura, avere la possibilità di osservare pezzi di strada e di essere osservati, ma solo a mezzo busto, avere un canale nuovo di comunicazione, non molto intimo e un po’ urlato, ma a suo modo efficace perché colpisce tutti quelli che si trovano a passare. Non è così, è più complesso. Accadono cose, su wordpress, che non sono sempre uguali a loro stesse. E qualcuno dice che non sia per caso, perché “niente è per caso”. Wish aka Max me lo ha spiegato così:

Tutto nasce (apparentemente) per caso. Mi trovo sul blog di intesomale, e vedo una discussione con un certo swannmatassa, che si conclude con lui…

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